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Le bugie stanche di un uomo indifeso

Le bugie stanche di un uomo indifeso

Per 18 anni Jean-Marc Faure ha ingannato tutti fingendo di essere quello che non era. Nicole Garcia per tutto il film prova a guardare oltre lo sguardo stanco e pensieroso, oltre gli occhi sempre tesi e tristi del protagonista (interpretato da Daniel Auteuil) disseminando tracce visive del suo tormento interiore. Auteuil, nato in Algeria come la regista, si appropria completamente della parte arricchendone il carattere con quel fascino malinconico che la tradizione noir francese riserva ai personaggi che si realizzano solo nella sconfitta. Il suo destino appare irrimediabilmente segnato già quando, dopo il primo omicidio, vediamo in un gioco di ombre, la sua figura intrappolata tra le sagome dei braccioli di una scala a chiocciola proiettate sul pavimento come sbarre di una prigione immaginaria. Jean-Marc è incessantemente in movimento e, girando a vuoto, sembra disegnare cerchi concentrici intorno alla sua confusione. La mdp lo attende ad ogni angolo riprendendolo spesso di profilo consapevole che il suo sguardo resterà impenetrabile. Ogni sua bugia si materializza somaticamente in un nuovo segno sul volto cupo. Un uomo che vorrebbe vivere solo d’amore e nella sua distorta concezione affettiva subisce il richiamo della sensualità diventando l’improbabile amante della carnale Marianne (Emanuelle Devos). Il film si muove lungo un unico filo che lega apparenza, menzogna, fiducia, solitudine e amore. Quando la finzione non è più sostenibile Faure, incapace di interloquire con l’esterno, fa ricorso alla violenza omicida che irrompe asettica e improvvisa come in un film di Chabrol. Dopo ogni uccisione la sceneggiatura ha previsto per il “dotttore” provvidenziali vuoti di memoria e per gli spettatori fotogrammi tranquillizzanti di paesaggi montani per concedere a tutti una pausa dall’orrore. Secondo la sua visione autistica dei rapporti umani, quei crimini hanno l’innocente scopo di risparmiare alle vittime un dispiacere, una disillusione. Attraverso la confessione metacinematografica registrata per la famiglia, il nostro, con uno sguardo in macchina da brivido, tenta di farci comprendere il senso delle sue azioni ma, costretto a rinunciare, elimina l’audio lasciandoci soli di fronte al mistero. Attraverso un intrigante uso del Flash back “a incastro” la regia cerca di fare ordine nel mosaico delle motivazioni di una mente inaccessibile. La fotografia procede per immagini sovraesposte cariche di una luce bianca accecante che rende ogni cosa nitida e irreale al tempo stesso. Un cinema dell’opacità che contamina la storia con un’incessante senso di angoscia, istigato anche dalla musica di Angelo Badalamenti che, causa collaborazione con David Lynch, è ormai esperto nel rendere in note atmosfere “nere” dove domina il senso di oscurità e paura. Il ritmo sonoro del film è scandito dal vuoto dei silenzi e dai continui e amplificati rumori di strada che sottolineano l’isolamento del protagonista e il suo disturbo verso il “reale”. L’uscita in Francia de “L’avversario”, in concorso a Cannes 2002 e tratto dall’omonimo romanzo di Emmanuel Carrère (Einaudi Tascabili); è stata a lungo rinviata a causa della affinità di trama con “A tempo pieno”, l’ottimo film di Laurent Cantet. Le due pellicole, pur avendo in comune il senso di estraneità dei protagonisti verso una società squallidamente calvinista, divergono nell’oggetto dell’indagine psicologica: Vincent, dopo la caduta, reagisce adattandosi passivamente alle regole dettate dalla “cultura aziendale” e diventa il simbolo di una denuncia politica; per Jean-Marc, invece, la disfatta sociale è senza appello, la sua incompatibilità con la vita è patologica e il suo movente rimane misteriosamente inafferrabile come la foto da ragazzo con il passamontagna conservata in casa dai tristi genitori. La neve, che all’inizio del film rappresentava l’illusione della serenità, nell’ultima sequenza celebra la sofferta “pace bianca” di una domenica dove tutto è finito nel dolore, anche le bugie.

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