Senza soluzione di continuità
Si spengono le luci in sala e cala il buio, complice di quella magia che tanto seduce il viaggiatore immobile. Sto per vedere una delle pellicole che ho atteso di più e non ho dubbi che non mi deluderà. Il viaggio inizia dal buco, nel buio , fra radici spezzate, fango e vermi. La mdp esplora lentamente e si alza per uscire: gli occhi abbagliati si strizzano perchè fuori il sole ruggisce fra cicale e grano.
Siamo nel 1978, in un non precisato paesino del sud. O meglio. Siamo in un non-luogo perchè più che un’ambiente reale questi interminati spazi di grano oscillante, sovrastati solo dal cobalto del cielo a perdita d’occhio, sembrano essere più che altro luoghi dell’anima. Un mondo ancestrale e incontaminato che sembra incarnare perfettamente quella fase in cui inevidabilmente si spezza qualcosa e si cresce. Si perde l’innocenza. E così questo luogo di frontiera, quattro case e grano e sole e basta, nasconde nella sua quiete apparente il germe della frattura, dell’inquietudine che non ci abbandonerà più.
Michele ha nove anni e la sua vita è fatta di cose semplici: la bicicletta, i giornalini, la famiglia e i suoi amici. Semplici ma non piccole. Come non lo è la lotta costante per affermarsi nel gruppo o l’immaginazione sfrenata che filtra il mondo da un’altra prospettiva. Sembra un universo eterno e immutabile ma anche per Michele è in arrivo il cambiamento. Niente sarà più come prima quando troverà, in fondo a un buco, un bambino come lui.
Il libro di Ammaniti era già alla genesi un film, nasce infatti come soggetto cinemamtografico. Ma non è solo questo a renderlo un’autentica bomba ad orologeria per il grande schermo: è prima di tutto lo stile a fare di quelle duecento pagine un film a parole. E’ caratteristico della scrittura dell’autore romano ma qui più che in qualunque altra narrazione. Ecco perchè penso che infondo la fatica di Salvatores sia stata minima (fra l’altro A. è co-scenggiatore): il regista doveva solo chiudere gli occhi e lasciare che la sua immaginazione (e la sua arte) realizzassero le immagini. S. stesso ha dichiarato che avrebbe potuto fare il film partendo direttamente dal libro, senza sceneggiatura, perchè tutto era già presente fra quelle righe. Ed è così. Anche se la sua forza non si esaurisce nella traduzione in immagini: continua ad essere un gran bel libro che dice qualcosa di più o semplicemente qualcosa di diverso dal film. Si può leggere il libro anche dopo il film e goderne comunque come si può vedere il film dopo averlo letto e uscire pienamente sazi e appagati. C’è un rapporto indefinibile e stupefacente fra i due, che si rimandano l’uno all’altro senza soluzione di continuità: è il risultato migliore che possa raggiungere la relazione fra immagine e parola.
Salvatores, per tradurre la narrazione del testo in prima persona, ha messo la mdp ad altezza di bambino, seguendo sempre il protagonista. Ha lavorato soprattutto sulla distribuzione del sapere in modo da aumentare l’immedesimazione e la suspance, lasciando lo spettatore solo con Michele. Insieme al direttore della fotografia hanno scelto spesso obbiettivi a focale non definita che, con l’uso di un’ illuminazione ad un solo raggio sul soggetto, hanno reso quella sensazione di percezione imperfetta e soggettiva.
Impeccabile anche la musica originale, che su consiglio dello stesso scrittore, si affida al suono teso e incalzante degli archi. E’ indubbio che Salvatores abbia amato molto questo libro, perchè ha creato qualcosa di veramente unico e pregevole.
Un grande piccolo libro finalmente ha trovato la giusta consacrazione in un film raffinato e poetico, che riempie l’anima e inorgoglisce perchè riporta l’Italia fra i seggi alti della scena internazionale.
CURIOSITA’:
Il regista ha avuto qualche difficoltà sul set per girare le scene di Filippo nel buco. Mattia Di Pierro (l’interprete di Filippo Carducci) si sentiva a disagio fra il fango e gli insetti e non riusciva a immedesimarsi nella parte. Così S. ha provato a fargli evocare l’angoscia delle notti al buio nella sua stanza, ma il bambino dormiva sempre con una luce accesa. Allora ha provato pensando allo sgabuzzino in cui ogni tanto si viene rinchiusi quando non si fa i bravi. Ma non sono più i tempi di queste punizioni e il padre di Mattia non l’aveva mai fatto. Incapace di proseguire S. ha tagliato corto dicendo che prima o poi avrebbe trovato l’ispirazione. Poco dopo Mattia è tornato e ha detto: “Ho capito. Il buco è la tristezza in cui finisci quando stai male e sei solo.”
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A cura di Francesca Arceri
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