Crisi di noia
Crisi di noia *
di Raffaele Elia
Esaltato dal successo al botteghino de “L’ultimo bacio” (2001); Gabriele Muccino raddoppia il budget e assolda il meglio degli attori italiani in attività con il pretenzioso obiettivo di rilanciare la commedia all’italiana aggiornandola alla crisi della sua generazione. Questa lodevole intenzione però si dilegua immediatamente seppellita da un sfilata di personaggi/macchietta imprigionati in una ragnatela di luoghi comuni.
Nel corso del film si sviluppano e si incontrano le frustrazioni dei componenti di una classica famiglia borghese italiana con padre, madre e due figli. La donna ha il rimpianto per l’abbandono della carriera di attrice, il padre voleva fare lo scrittore, la figlia vuole fare la “velina” e il figlio è in piena crisi adolescenziale. Il vuoto creato dalla evidente mancanza di una storia originale da raccontare è colmato da sequenze in cui gli attori gesticolano agitati o urlano, compresa Laura Morante, forse la migliore attrice italiana, mai così sopra le righe. I personaggi hanno una sola dimensione, ognuno votato pateticamente a risolvere la sua piccola insoddisfazione, lucidamente consci e quasi compiaciuti della propria patologia. Nel momento in cui l’affannosa ricerca di un senso raggiunge livelli di isteria non tollerabili (anche dallo spettatore) arriva l’incidente del padre (che originalità!) che sembra cambiare il corso degli eventi; quando vediamo la moglie in ospedale accanto a lui perdonargli la scappatella con la vecchia fiamma pur di riaverlo, sorge il dubbio che Bentivoglio (molto sottotono) stia interpretando la biografia dell’abbronzato presentatore tv Alberto Castagna.
L’abile uso della steady cam, le nervose carrellate e la scelta di un intenso montaggio alternato che fa procedere a incastro le diverse storie risulta vanificato dalla disarmante banalità delle situazioni e la mdp sempre in movimento pare inseguire nevroticamente un ispirazione che non arriva mai. “La forma crea il contenuto” dicevano Rohmer e Chabrol a proposito di Hitchcock, ma senza una solida sceneggiatura la padronanza del mezzo tecnico non è sufficiente a giustificare la differenza tra un ottimo operatore di macchina e un regista-autore.
“Ricordati di me” riesce solo a scimmiottare la tradizione della grande commedia all’italiana, perpetuando l’ormai ricorrente difetto del nostro cinema (vedi ad esempio il recente Salvatores) di ammantare il soggetto di una patina di grottesco, esasperando le situazioni ritenendo di renderle più interessanti!!. Anche sul piano strettamente sociologico il film sfugge di mano agli sceneggiatori, si avvita su se stesso, diventando l’ennesimo palcoscenico di una borghesia post sessantottina frustrata per non essere riuscita a cambiare il mondo che si culla con masochismo nelle proprie insoddisfazioni che esorcizza con una logorrea gridata e noiosa, ignara del fatto che l’urlo terapeutico è ormai superato anche in “analisi”.
L’obiettivo di denunciare la tv spazzatura si rivela un boomerang mediatico che cade due volte nel paradosso dopo la promozione “a reti unificate” di cui ha beneficiato il film e con lo spettatore-voyeur che durante al visione prova la stessa sensazione, in bilico tra imbarazzo e curiosità becera, di quando è davanti alla cosiddetta “tv verità”. Se si vuole percepire cos’è la nostra tv è più istruttivo e divertente guardare ogni sera cinque minuti di “Blob”.
Un’occasione persa, un film lungo e irritante le cui uniche note positive sono la spontaneità della Romanoff (il padre, il deputato di AN Avv. Consolo, ha dichiarato che in fondo le frasi pronunciate dalla figlia sono le stesse che da sempre si è sentito ripetere in casa) e una Bellucci intensa e misurata che, quantomeno, recita senza bisogno di alzare la voce. Un ultimo brivido percorre, infine, la nostra schiena sapendo che il regista ha appena firmato un contratto con la Miramax per la realizzazione del remake di “C’eravamo tanto amati” (di Ettore Scola, 1974). S.O.S.!!!!
Muccino si conferma, senza strafare ***
di Giacomo Freri
INGABBIATI E INFELICI
Muccino prosegue il suo viaggio tra le insicurezze e lo smarrimento ideologico-morale dei nostri giorni. Dopo i trentenni de “L’ultimo bacio” il regista punta ora il suo sguardo sulla famiglia borghese in pieno disfacimento: tutti sembrano infelici ed insoddisfatti, tutti sembrano alla ricerca di qualcosa che all’interno del nucleo familiare non riescono a trovare, anzi sembra proprio che quest’ultimo, con le sue convenzioni e i suoi rapporti sociali “imposti” ingabbi i personaggi e sia la causa prima della loro insoddisfazione. Fino al punto di rottura in cui la situazione esplode.La visione del mondo di Muccino sembra essere la medesima del film precedente: perdita dei valori fondamentali, frenesia, egoismo nei rapporti sociali, difficoltà nel comunicare e ricerca disperata di una felicità che non sembra essere raggiungibile veramente. Muccino, in questa visione dissacrante, non riparmia nessuno: dai giovani “alternativi” ma vuoti quanto le aspiranti vallette ai quarantenni delusi perché venuti a patti con la vita e con la società,dal mondo arrivista della televisione a quello falso della politica.
UNA CONFERMA DIETRO ALLA MACCHINA DA PRESA
Oltre alle sue tematiche Muccino conferma anche la sua maestria e la sua capacità di utilizzare con grande abilità il mezzo cinematografico. La sua bravura risalta soprattutto nel modo in cui riesce a portare avanti le vicende individuali dei vari personaggi (come accadeva ne “L’ultimo bacio”) in modo parallelo, mantenendo sempre alti la tensione ed il ritmo della narrazione, e non pertendo mai di vista il filo del discorso ed il nucleo della vicenda (in questo caso la crisi familiare). Nella parte del film in cui si esasperano i conflitti all’interno della famiglia, una macchina da presa sempre in movimento, spesso traballante e veloce segue da vicino i protagonisti veicolandoci quel senso di agitazione e drammaticità che la vicenda porta con sé; a questo registro narrativo Muccino ne alterna un altro, più lento e con inquadrature più ampie (ad esempio quando Carlo va al mare con Alessia); per farci prendere fiato ed allontanarci da quella “gabbia soffocante” che è la famiglia.Lo schema narrativo sembra ricalcare a grandi linee quello del film prededente in cui, ad una fase di crisi e tensione iniziale, segue l’attesa eplosione del dramma che si concluderà poi con una risoluzione pacifica della situazione, ma sempre in un tono non affatto consolatorio e con un finale aperto e ambiguo. Insomma, Muccino sembra aver trovato un suo stile personale, una sorta di marchio di fabbrica stilistico-tematico con il quale prosegue il suo percorso cinematografico. Lui dice d’ispirarsi alla tradizione del cinema classico italiano, ma che i Maestri come De Sica o Fellini lo fanno sentire tanto inferiore ed inadegauto da spingerlo in tutti i modi a crescere. Onestà intellettuale da parte di un regista che sa fare cinema e sa racconatare e confezionare molto bene le sue storie. Diaciamolo pure, non è roba da poco.
A cura di Raffaele Elia
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