L’anima sbriciolata di gelc SINNED
Dennis Cleg, di fronte: la parte anteriore del suo cervello, la parte “pubblica”, è quella di un uomo di trentatrè anni, matricida, schizofranico. Sul retro, nel buco più nascosto della sua mente sfaldata, vive Spider: il ragazzo che un giorno non ha più visto sua madre, e al suo posto ha trovato una volgare sgualdrina.
“Spider” di Patrick McGrath è un romanzo narrativamente complesso: i piani temporali sono continuamente sfasati; per questo motivo il protagonista, il cui soprannome dà titolo all’opera, nello sforzo di ricostruire il proprio tragico passato, la catastrofe che lo ha condotto al manicomio di Ganderhill, si aggira tra passato e presente, testimone e soggetto della propria vicenda. Spider tiene un diario, in cui annota le proprie ricostruzioni, a notte. Ma più che scrivere, egli ha la sensazione di “essere scritto”, quasi alla maniera di un medium o lucernario che proietti intorno a sé ricordi ed emozioni. Maggior pregio del romanzo, a mio avviso, proprio l’immersione nella mente del protagonista: attento narratore, quest’ultimo, degli sconvolgimenti della propria mente mutila: delle proprie paranoie, allucinazioni, dei commoventi ricordi e speranze.
Più livelli di passato dunque, che diventano presente proprio in quanto è l’occhio – la voce – dell’uomo a discoprirli: presente è il tragico autunno-inverno di vent’anni prima, come presente è il lungo soggiorno a Ganderhill; confusi ciò che è stato e ciò che va diventando, a parlare è ora lo Spider che annota il diario, ora il ragazzino del 1937.
Queste le premesse: un uomo e il suo incubo; l’incubo della propria mente, del segreto della propria personalità, del verme bianco che si annida nelle profondità della disperazione.
David Cronenberg accetta di trarre un film dal racconto di Dennis Cleg: potrebbe esistere regista più adatto? a descrivere – analizzare – l’inferno ribollente all’interno di un corpo?
Nasce “Spider”, uscito a gennaio di quest’anno, attesissimo. In realtà fu Ralph Fiennes a insistere perchè un film venisse tradotto dal romanzo di McGrath; rimasto folgorato dal protagonista del libro l’attore irlandese volle a tutti i costi interpretarne la sofferenza sullo schermo: A ragione, a giudicare ora dal suo risultato.
McGrath riprese in mano l’opera, riscrivendola e sceneggiandola per il cinema. Cronenberg si trovò dunque in mano un soggetto e una sceneggiatura altrui: a questo non era abituato.
Come il romanzo, anche lo “Spider” cronenberghiano segue una sorta di soggettiva: onnisciente è il narratore in entrambi i casi; anche quando il protagonista si aggira tra i propri ricordi, noi siamo con lui presenti agli avvenimenti, reali o meno.
In realtà la narrazione è una lunga, ossessiva testimonianza dei processi di una mente straziata: lo stesso Dennis/Spider deve probabilmente vedersi anche dall’esterno, nel suo doloroso delirio.
Questa cupa immersione era il fascino del romanzo: come il protagonista, fragile “come una lampadina, che protegge il debole filamento interno” anche il lettore non sa più distinguere tra verità e delirio, tra incubo e realtà. Tra questi ultimi non vi è nessuna divisione. Dunque splendide e terrificanti sono le pagine in cui Dennis/Spider descrive le proprie sensazioni, ciò che vede e ode, ciò che muta improvvisamente intorno a lui e all’interno del suo stesso corpo. Ad esempio, suo padre e la sgualdrina usurpatrice assumono, nel buio della cucina, spaventosi tratti animaleschi: solo a luccicare gli occhi e i denti; convinto che i due vogliano divorarlo, Spider li vede sbavare mentre sente i loro occhi su di sè; una patata inizia a sanguinare durante un pranzo, mentre la luce sopra al tavolo prende a produrre un suono ronzante, affievolendosi. Tali episodi ricorrono di continuo nel romanzo, a sottolinearne un lato orrorifico – fantastico assai sviluppato.
L’intreccio, in fin dei conti, è poca cosa; è il pretesto per il tentativo di McGrath di dare uno sguardo agli incerti contorni della tenebra dell’esistere.
E’ questo, a mio avviso, ciò che nell’opera di Cronenberg fa sentire la propria assenza: se visivamente il film è impeccabile, se le atmosfere opprimenti del ruinoso East End londinese sono rievocate con successo, se – ancora – Fiennes è grandioso nel suo dar vita al “povero vecchio Spider”, alla fine della proiezione si rimane insoddisfatti: l’intreccio si è risolto, il passato ricostruito, eppure non era questo che aspettavamo; era qualcosa che, dopo aver letto l’opera originaria, si può riconoscere nell’”incubo mancato”: era Cronenberg, dopotutto. Al contrario il film privilegia l’aspetto “psichiatrico” della vicenda; sono riprodotte le atmosfere ambientali, non quelle mentali; forse la voce fuori campo di Spider narratore avrebbe in parte potuto colmare questa mancanza. D’altronde è stato McGrath a sceneggiare il suo stesso romanzo; chissà, forse Cronenberg si sarebbe divertito a girare altre scene.
I fili che Dennis/Spider tesse nella sua stanza, nel suo nido ragnesco, non sono ancora presenti nel romanzo: il ragazzino è chiamato “Spider” dalla madre per la sua tendenza a cacciarsi in luoghi angusti e nascosti; il finale è diverso: forse per movimentare un pò l’azione, nel film il protagonista arriva quasi ad assassinare la pensionaria presso cui dimora; [img4] nel libro, semplicemente, il povero Spider prende quella corda che aveva nominato tante pagine prima, e sale le scale, va in soffitta; per non sentire mai più quelle voci che nel buio mormoravano alla sua mente, invertendo il suo nome: “gelc sinned gelc sinned gelc SINNED…”
“Sì, era opera sua, gelc aveva peccato ben bene.”, riconosce poi.
Ciao, Spider: da una parte torni a Ganderhill: dall’altra vai a riabbracciare la tua dolce, fragile madre.
“Spider”, regia di David Cronenberg, 2002
“Spider”, romanzo di Patrick McGrath, Bompiani, € 14,50
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A cura di Mario Bonaldi
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