Gli dei della guerra
Martin Scorsese, uno dei più grandi cineasti viventi, ha dichiarato che quest’ultima sua pellicola era segnata dalla guerra, dagli dei della guerra. Ispirandosi alla New York ottocentesca il regista italoamericano fa uno dei suoi film più duri, epici e perfino, a proprio modo, politici. Dietro le dichiarazioni di guerra, di odio, di morte altro non c’è che lo scontro tra immigrati irlandesi, polacchi e tedeschi e nativi americani. Ciascuno desideroso di guadagnarsi la sua parte di potere e ricchezza.
La regia di Scorsese è perfetta: virtuosa dove essere virtuosa, semplice dove deve essere semplice. Sceneggiatura ambivalente, poichè è imprevedibile nell’intreccio ma roboante e memorabile nei dialoghi, alcuni da antologia, come il monologo di Day-Lewis con tanto di bandiera americana lacerata sulla schiena. Scenografia e costumi memorabili. Di Caprio e la Diaz bravini ma surclassati dall’incisivo Liam Neeson e ridicolizzati da Daniel Day Lewis che stupisce nel delineare un personaggio insieme brutale e romantico, epico e spietato. Ci sono più idee di regia in questo film che nel novanta per cento delle pellicole attualmente presenti nelle sale.
Nelle immagini si sente urlare la sete di gloria e di sangue, chi sopravviverà alla prova della battaglia resterà segnato, per sempre. Vi è qualcosa di paganeggiante e crudele nell’immenso respiro epico dell’opera. Era forse dai tempi di “C’era una volta in America” di un certo Sergio Leone (qualcuno se lo ricorda ancora o tutti pensano che il cinema italiano siano solo le paranoie politiche di Moretti e le cretinate sentimentali di Muccino?) che non si vede un film con tanta sete di grandezza e con un tale atteggiamento di sprezzante, superba solitudine.
Poco amato dalla maggior parte dei critici, ansiosi di esaltare operine di piccolezza imbarazzante, troppo mediocri per riconoscere un capolavoro.
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