Fotografia blue notte della provincia americana
La visione comincia dall’alto tra i fitti rami di un bosco cittadino, poi la macchina da presa scende dolcemente verso il basso, oltrepassa con curiosità il lato di un palazzo e approda tra i viali alberati di Hartford, Connecticut. In paese tutto sembra perfetto, ogni cosa è al proprio posto e la gente, sorridente e cordiale, compie come ogni giorno gli stessi gesti in un’atmosfera che ricorda la città artificiale del “Truman show” (Peter Weir, 1998). Già dalle prime scene, però, siamo avvolti da una strana sensazione di inquietudine che diviene certezza quando vediamo alzarsi alcune “foglie al vento” che si espandono nell’aria stendendo un lugubre presagio cinefilo sulla storia che il regista si appresta a raccontare. Frank Whitaker (un ottimo Dennis Quaid) è il migliore venditore di televisori della Magnotech e la sua bellissima moglie Cathy è una madre modello per i loro due figli e una impeccabile governante della casa. La perfezione della loro unione è bruscamente interrotta dalla concomitante scoperta da parte di Cathy (Julianne Moore) dell’omosessualità del marito e della attrazione, quantomeno affettiva, che lei prova verso il giardiniere Raymond. Il film segue il percorso di Cathy nella progressiva presa di coscienza della complessità dei suoi sentimenti e delle sue sensazioni e la conseguente messa in discussione di tutti i suoi riferimenti morali. La visione di Frank che bacia un uomo nel suo ufficio le provoca un crollo psichico e la costringe ad una dolorosa discesa nella propria interiorità. Improvvisamente la signora Whitaker si sente “diversa” dai suoi amici, soffocata dalla ritualità borghese di cui finora si è nutrita ma che ormai è troppo stretta per contenere le sue pulsioni emotive. Haynes utilizza una sublime Julianne Moore come la “barbie” protagonista di un suo precedente mediometraggio (“Superstar” del 1987); Cathy cammina leggera per la casa e lungo i viali soleggiati della città con i capelli “mesciati” e cotonati raccolti in eleganti foulard, si muove con sicurezza negli improbabili vestitini dai colori pastello con gonne a ruota ed esprime assoluta padronanza della situazione nel modo in cui accoglie gli ospiti in casa, in cui indossa l’elegante cappotto rosso, si sfila i lunghi guanti o guida la Station wagon azzurro pallido. I suoi occhi sono però spesso attraversati da lampi di pensieri lontani, i suoi sorrisi sempre più tirati e velati di insofferenza. La Moore è divina nell’interpretare i minimi segni di tale trasformazione e nel renderci complici quasi imbarazzati dell’evoluzione emozionale di Cathy. Per riprendere attraverso immensi primi piani il suo volto latteo e languido, Haynes non ha bisogno di porre un velo sulla mdp come chiedevano le vecchie dive tanto è naturale il fascino di Julianne Moore. Emblematica per comprendere il lavoro di preparazione e il talento nella recitazione dell’attrice, premiata con la Coppa Volti all’ultimo Festival di Venezia e al Festival di Toronto, è l’espressione del volto, nella sequenza all’uscita dell’ospedale dove Frank si è recato per “curarsi”, che muta impercettibile dal sorriso ottimista alle lacrime trattenute dopo l’improvviso rimprovero del marito; in pochi istanti e con un lieve mutamento della mimica facciale riesce a trasmetterci tutte le emozioni di una donna ormai consapevole di essere rimasta sola. La Moore, incinta della seconda figlia (Liv Helen) durante le riprese, ha studiato la parte riguardando tutti i film di Doris Day e riuscendo a creare una bellissima bambola inquieta di cui è impossibile non innamorarsi. La pellicola, nei temi come nello stile, è un omaggio dichiarato ai melò hollywoodiani degli anni 50’ di Douglas Sirk & C. e riconoscibile dall’antinaturalismo violento “a tratti Pop” delle immagini e dalla presenza di un personaggio maschile fragile accanto ad uno femminile coraggioso ma destinato alla sofferenza. Haynes, rispetto ai suoi maestri, può spingersi più affondo nell’approfondimento di temi che all’epoca potevano essere solamente evocati come l’omosessualità, rendendo così la storia meno morbosa ma più definitiva ed esplicita. I colori iperrealistici tipici del genere sono spesso affiancati da un conflitto tra toni, a volte in una stessa scena; al rosso autunnale si contrappone un onnipresente “blue notte” (che non evoca certamente il paradiso) che pervade intere porzioni dell’inquadratura e avvolge ogni cosa facendone emergere il lato oscuro. La splendida fotografia di Edward Lachman ha ricevuto al Festival di Venezia la “menzione speciale per il contributo artistico”. In un buon melò classico è d’obbligo la presenza del ragazzo di colore sensibile e dall’animo gentile. In questo caso si tratta di Raymond il giardiniere da cui Cathy è attratta come accadde già a Jane Wyman in “Secondo amore” (Douglas Sirk,1955) e a Brigitte Mira nel “remake” di un altro fan del regista americano, Rainer Werner Fassbinder (La paura mangia l’anima, 1973). Il garbato e imbarazzato progressismo sociale della signora Whitacker è completato dal rispettoso rapporto che intrattiene con la domestica nera Sybil che ricorda l’atteggiamento della moglie (Frances McDormand) dello sceriffo razzista in “Mississippi burning” di Alan Parker del 1989. Le citazioni del “genere” sono infinite, Max Ophuls, Nunnaly Johnson di cui vediamo proiettati alcuni fotogrammi di “La donna dai tre volti” del 1957 e persino il nostro Matarazzo. Interessante la riflessione del regista sul ruolo dell’arte nei momenti di cambiamento, di crescita e di ricerca di se stessi, ultimo rimedio quando ci si sente “gli unici nella stanza”; la complicità prima solo istintiva tra Cathy e Raymond si sublima davanti ai quadri di Mirò e Picasso quasi a voler dichiarare che il mondo non è diviso verticalmente in barriere ma orizzontalmente per affinità. La provincia americana davanti allo “specchio della vita” che riflette inesorabile una società razzista e omofobica anche nella discriminazione che permette con ipocrisia a Frank di vivere la sua “malattia” ma non concede, neanche sotto le spoglie di Eleonor, la migliore amica di Cathy, a una donna bianca di coltivare un’amicizia con un uomo nero. Haynes si insinua allora nella psiche della protagonista cercando di rubarne i frammenti più intimi alla ricerca di indizi sulle sue ferite interiori per poi ricomporre con lucidità il mosaico della sua inquietudine. Il film, prodotto da Steven Soderbergh e George Clooney, risulta elegante ma mai freddo, discreto ma mai distaccato come l’enigmatica colonna sonora di Elmer Bernstein. Dalla California di “Safe” (dello stesso regista, 1995) al Connecticut di “Lontano dal paradiso”, il salto è lungo ma l’ipocondria postindustriale e il terrore della diversità sono solo due facce del malessere profondo da cui è affetta la stessa “Società della paura”. Il film inizia e si conclude dall’alto tra rassicuranti alberi centenari tinti di arancione, come se il regista/sceneggiatore si volesse allontanare con pudore dall’oscurità affettiva dove ci ha lasciato nel vano tentativo di liberarci dalle angosce dei suoi personaggi, riportandoci lassù dove tutto appare con i colori e la luce della fiaba.
A cura di Raffaele Elia
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