Vedere Parigi sognare
Parigi, ed è il 1936; un uomo si aggira per i passages, il suo nome è Walter Benjamin. La volta di vetro e ferro filtra una luce innaturale, malata; soggiorno e corridoio, il passage è ciò che di questa città Benjamin ama di più: ciò che più si allontana dagli immensi boulevards progettati da Hausmann, il nazista, l’uomo che è stato capace di demolire la casa della propria infanzia.
Walter Benjamin ha appena pubblicato un libro intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”: “…tu riproducila un po’, l’opera, e ciao aura!”; e girovaga per Parigi seguendo il proprio istinto, il caso, il moto irrazionale delle proprie gambe, alla ricerca di oggetti da collezionare, di frammenti di letteratura: un cinese gli venderà Odradek, e i tre puntini di Céline, e quei tre soldi dell’opera di Brecht; e ancora troverà i fiori di cui parlava Baudelaire, e potrà addirittura innaffiarli di alcune gocce di autentico spleen de Paris…
Il feticismo come senso magico delle cose: “se è questo che genera la letteratura, è questo, la letteratura”.
“Tutto il ferro della torre Eiffel” è il nuovo romanzo di Michele Mari; romanzo fantastico, che respira e si nutre di letteratura, e letteratura fa nascere, in cui avvengono magicamente incontri straordinari, tra scrittori morti e morituri, personaggi dei libri, opere d’arte, esseri generati dalla penna che, liberatisi dal sepolcro della pagina, si aggirano per Parigi cercando un po’ di pace.
Protagonista del romanzo è Benjamin, malinconico flâneur, ossessionato sin dall’infanzia da un omino gobbo che gli complica la vita. E di nani il libro è zeppo: nani malefici, infidi, che sembrano infestare il mondo dell’epoca: dai sette nani di Walter Disney a quelli dei Nibelunghi dell’antisemita Wagner, giganti della mitologia nazista, a quell’austriaco osceno e urlante acclamato in Germania… e inoltre sul luogo di morte di numerosissimi scrittori suicidi è spesso avvistato un nano…
All’omino gobbo Benjamin oppone l’angelo, il suo angelo, quello che ha riconosciuto nella tela di Paul Klee “Angelus Novus”: il cui nome segreto, una volta pronunciato, fa sì che esso si trasfonda negli oggetti, in modo da permettere al mortale di conservare la parte migliore di sé nelle cose che ha amato più a lungo. Perciò Benjamin è un collezionista: gli oggetti costruiscono un argine verso il mondo e le sue crudeltà. Tuttavia, come nelle liriche di Rainer Maria Rilke, angeli e demoni si confondono, e l’Angelo ha spesso ali di pipistrello.
Contro demoni e omuncoli e esseri inquietanti Benjamin ha un altro esorcismo: l’evocazione del ferro, il santo ferro della modernità, delle stazioni ferroviarie, delle volte dei passages, della Torre Eiffel, il rosso mostro metallico che avrebbe dovuto esistere pochi mesi e invece è ancora lì, gigantesco talismano: benché ferro e acciaio siano anche quelli delle industrie Krupp e Renault produttrici di bombe e cannoni… Tutto è ambiguo, niente esce mai completamente dall’ombra: il meraviglioso Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, ha scritto due romanzi immensi e anche gli immondi libelli antisemiti…
Il filosofo tedesco è affiancato da Marc Bloch, medievista alcolizzato, indagatore di morti suicide di scrittori: vittime del “demone meridiano”, che dall’inizio della modernità ha sussurrato all’orecchio degli scrittori le proprie parole di morte con una frequenza impressionante.
Il romanzo si snoda in una ininterrotta sequenza di nomi, di incontri, di personaggi, a creare una sorta di enciclopedia parallela dell’arte novecentesca, che predilige gli interrogativi irrisolti, le inquietanti parentele, gli aspetti meno noti e per questo più affascinanti… spesso affiora il narratore, a comunicare sgomento o rimpianto per la sorte dei personaggi, e commozione ed empatia, come nel caso dello stupendo incontro tra il suicida Klaus Mann e il suo gelido padre Thomas, il quale ne emerge grandissimo scrittore incapace di umanità.
Affetto denota ogni parola relativa a Walter Benjamin, straordinario protagonista del libro: delicato, indimenticabile cercatore d’aura in un mondo che sta covando il nazismo, sozzo bubbone enfiato prossimo allo scoppio.
Lo stile di Mari è elaborato e prezioso, ma fluido nelle parti narrative e vivacissimo nei dialoghi, molto ben curati; l’attenzione al significato di ogni singola parola è massima; l’espressività e l’invenzione sono lasciate alla voce di alcuni personaggi, tra cui spicca un burattinaio che, dal modo in cui parla: “…Non caragnate bimbi, quel buffo omino vi sollazzava, lo so, ma non frignate… restava di lui ormai solo questa ruota, la pancia… non s’è perso poi molto… […] …la nostra invalidità 75%… noi la nostra gamella di cavolo stufato, in un cantuccio… salsa di calci in culo e senape di sputacchi… e via che si ciabatta bisunti!” sembra proprio essere quel tale che scriveva come un demonio, inspiegabilmente antisemita… secondo un procedimento, quello del calco stilistico, caro a Michele Mari (si veda, ad esempio, nel suo “Filologia dell’anfibio”, quell’inizio di capitolo scritto alla maniera del Machiavelli.)
Duecentosettantasei pagine, che scorrono come se fossero venti, ed è come se il lettore salisse a bordo del Nautilus per un favoloso excursus, sotto il rassicurante ferro e l’abbracciante vetro dei passages, nelle viscere di una città piena di uomini, donne, esseri, che la letteratura ha condannato alla non-rassegnazione del proprio essere morti, eternamente vivi, che poi è lo stesso.
A cura di Mario Bonaldi
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