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cultura dell'immagine e della parola

Saga

In Uzbekistan, terra tanto remota da non essere per molti altro che un nome dal suono misterioso e dal fascino laggendario, è ancora in uso l’abitudine di narrare oralmente tramite degli aedi, i manascy, l’epopea nazionale in cui si riconosce quell’intero popolo: parliamo delle imprese del Khan Manas, il condottiero dei condottieri. Questa saga viene ancor oggi aggiornata e ampliata dai cantori: sono ormai cinque secoli che ciò avviene.
In occidente simili tradizioni sono ormai morte, non vi sono più voci disposte a cantarle e recitarle, perchè togliere ad una sagala voce di chi la narra, il fatto fisico, vuol dire in qualche modo ucciderla. Ne tenne conto anche Robert Plant dei Led Zeppelin quando, ispirandosi all’Iliade per la canzone ‘Achilles last stand’, ricordò che il poema omerico prima di esser letto era innanzitutto ascoltato.
La saga è morta ma in qualche modo vive, respira il suo spirito: ciò perché il mito che è un po’ il sangue della saga rimane un elemento essenziale del misero cuore umano. Essendo dunque morto il sistema orale, lo spirito della saga è stato trasposto in altra forma. Il romanzo per opera di Tolkien: in un genere moderno lo scrittore inglese innestò i modi propri di uno stile di narrazione ancestrale, quale appunto quello della saga. Un mezzo ancor più moderno, definibile, almeno in senso cronologico, come l’arte del ventesimo secolo per eccellenza, è ricorso più volte alla saga: parliamo, ovviamente, del cinema.
L’orgoglio delle stelle ‘Star Wars’ di George Lucas. Le leggende si svolgono nel passato, un passato mitico, ancestrale. George Lucas
ha cercato direnderlo ulteriormente remoto creando una vicenda che si svolge prima del tempo. Per far ciò, paradossalmente, si è ispirato alla fantascienza che normalmente si svolge nel futuro. E’ l’avvenire che incontra la memoria. Inizia la sua saga da metà proprio per riprendere un discorso interrotto, quello dell’epopea. Gli jedi sono cavalieri della tavola rotonda, eroi troiani che invece di avere a che fare armature e bighe si confrontano con spade laser e astronavi.
Peccato che Lucas, comunicatore eccezionale ma regista mediocre, stemperi il tutto in un’ironiastanca ed intellettualmente limitata, probabilmente nel tentativo di piacere a tutti: il modo migliore per non piacere veramente a nessuno.
Ritorno ad Avalon.
‘Excalibur’ di John Boorman.
Le vicende delle saghe arturiane ritornano con frequenza inquietante in
tutti i generi artistici. Anche il cinema se ne è appropriato un numero infinito di volte.
‘Excalibur’ ha un titolo programmatico, in quanto mette subito in videnza
la spada, arma terribilmente reale e celestialmente simbolica, attorno alla quale si svolgono le vicende di sangue, onore, amore e morte. Viene rappresentata la fine del mondo pagano:gli dei sono sconfitti dal dio unico. E’ la fine di un’era. Il tempo degli eroi è terminato, ma Excalibur vive ancora nelle dolci mani della signora del lago, in attesa di un nuovo Re: arriverà mai? Gli dei e i sognatori lo aspettano. Da sempre. Per sempre. L’attesa è il loro destino di solitudine e amarezza eterna.
La gelida morte dell’epopea.
‘Lancillotto e Ginevra’ di Robert Bresson.
Bresson, crudele e senza speranza come puo’esserlo solo un asceta, ha mostrato l’altro lato di questa medaglia di dolore: la saga è menzogna, cattiveria e odio. Gli eroi non sono mai esistiti, mai esisteranno. La gloria cavalleresca è solo desolata ferraglia macchiata dal sangue degli innocenti. Il duello non è dimostrazione di onore e coraggio ma un meccanismo perverso, stupido, alienante. Il Graal non verrà mai trovato, forse non esiste neppure. Cristo ha versato il suo sangue nella coppa. Ma, se veramente l’ha fatto, non è stato certo per gli uomini: di queste misere, meschine creature egli puo’solo ridere. Sarebbe
già qualcosa, ci dice Bresson, se li odiasse. Ma non li degna neppure di questo. In fondo la saga Arturiana, con il suo spirito di leggenda, orgoglio e bellezza, altro non è che una squallida, patetica questione di corna. Narrare è inutile, stupido. Non resta altro da fare che morire. Ma ai suoi cavalieri Bresson non permette neppure una morte dignitosa, figuriamoci eroica… Il loro decesso sarà sciocco e inutilmente violento come lo è stata la loro vita. Meglio se non fossero mai nati. Nè gli eroi, nè i bardi, nè le leggende, nè quei poveri idioti che le ascoltano e sono tanto mentalmente limitati e umanamente falliti da credervi. Ci sarà solo il silenzio.

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