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cultura dell'immagine e della parola

Malinconia

Nella vita ci sono momenti in cui si vive e momenti in cui ci si ferma a guardare indietro, riflettere o semplicemente ricordare. La malinconia è il sentimento della mancanza, ci manca ciò che abbiamo vissuto, anche solo per il fatto che non c’è più, è passato, andato, non ritornerà. Malinconia… non è così generica come il ricordo, che può essere anche negativo, non è così forte come il dolore… è qualcosa di dolce che scivola sotto pelle come le note di Melancony, ossia “Mellon collie and the infinite sadness” degli Smashing Pumpkins, è il manto di foglie gialle e rosse nel bosco dell’infanzia, una foto sbiadita da lacrime lente. E’ quella patina sottile che ci appanna la vista e attenua i colori dei nostri ricordi, è ciò che nel momento presente si chiama felicità, ma l’istante dopo già ci è scivolata giù dalle dita per trovare un’intensità più tenera e delicata nella memoria. Gli esseri umani hanno la straordinaria capacità di stravolgere i ricordi, rendendo piacevole anche ciò che mentre era vissuto magari non piaceva così tanto, ma… quant’è leggero tutto quando passa, il vento impetuoso polveroso del giorno si trasforma in morbida brezza crepuscolare.
La voce della malinconia è quella di Jeff Buckley, il nostro giovane angelo caduto nelle acque del Mississippi; il suo canto non soffierà più dalla sua bocca, ma solo dentro stereo ingrati, che prima o poi si romperanno per l’impossibilità di contenere un pianto tanto struggente, la faccia più dolce e pura della morte… la sua “Grace”:

“There’s the moon asking to stay
long enough for the clouds to fly me away
well it’s my time coming, I’m not afraid to die
my fading voice sings of love
but she cries to the ckicking of time
oh, time”

Compaiono nella mia mente immagini dipinte dal tocco gentile di Renoir, vita vissuta di un secolo estinto, giovani donne ricamate tra fiori, ombrellini bianchi e alberi frondosi. Tra quelle ragazzine si fa strada una testina di riccioli biondi, sono io a cinque anni, e non è più un prato, ma il salotto di casa mia, dove cammina incespicando un giradischi… suona note che sempre rimarranno impresse nella mia memoria; solo dopo molti anni ritroverò quei suoni che marcarono la mia infanzia e potrò dargli un nome: Neil Young, “Harvest”.
La malinconia corre sul filo del passato e i biondi riccioli ora non son miei, ma incorniciano il viso di un Principino in un campo giallo anche lui, con una volpe che piangerà ma “ci guadagnerà il colore del grano”…una storia piccola piccola ma tanto grande nei miei sedici anni.
Ogni ricordo della mia vita ha una sua colonna sonora, mi si ripresenta alla mente come immagini a rallentatore che si muovono al ritmo di musiche fuori campo. Esistono però certe canzoni che già dal primo ascolto, per misteriosa sintonia, hanno toccato immediatamente le corde della mia anima; come un déjà vu sono riaffiorate da chissà dove, dandomi l’impressione di conoscerle da sempre, solo dovevo scoprirle nella realtà per capirlo. E sempre mi parlavano con la stessa voce, quella struggente della malinconia, malinconia non so per che cosa, un sentimento generico e universale per la perdita di ciò che fu. Fin dalle prime note provavo un dolore strano, non intenso e accecante come un pugno, piuttosto diffuso e lento come aghi smorzati correndomi sulle braccia e lungo la schiena; mi dolevano le orecchie al suono di queste voci dalla sofferenza rassegnata, e gli occhi mi bruciavano di pianto, dolce e caldo pianto. [img4] Mi capitò nella tarda adolescenza ascoltando “I know it’s over” degli Smiths, o “Manchild” degli Eels, o ancora con la voce triste e lontana di Leonard Cohen. A ventanni fu la sensazione di profumo d’incenso nel buio che mi provocò “Black love” degli Afghan Whigs. Ma non esiste nulla di più dolcemente triste nella memoria che il ricordo di un amore perduto, o di un addio, ed è proprio il canto degli Alice in Chains dicendomi goodbye quello che come non mai mi ha ferito l’anima accarezzandola piano.

“Hey, I ain’t never coming home
Hey, I’ll just wander my own road
Hey, I can’t meet you here tomorrow
Say goodbye don’t follow
Misery so hollow.”
(Don’t follow)

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