L’avventuriero e il previdente sconfitti con poesia
Patrice Leconte ritorna in concorso al 59° Festival di Venezia con un film ambientato nella atmosfera fredda e immobile della profonda provincia francese. Un treno si ferma in una piccola stazione e sul marciapiede appare un uomo di mezza età, o forse più vecchio, dall’aria solitaria e malinconica avvolto in un giubbotto nero di pelle stile anni ’60. Si tratta di Milan (Johnny Hallyday) bandito “a fine carriera” giunto in paese per rapinare la banca locale con alcuni complici. Appena arrivato si imbatte in Manesquier (Jean Rochefort); un professore di francese in pensione che, simbolicamente incontrato in una farmacia, si offre di ospitarlo per la notte nella sua vecchia villa. Inizia così il racconto di due personaggi profondamente diversi ma accomunati dal rimpianto di non “aver vissuto la vita che non hanno avuto”. La sceneggiatura elaborata dal Claude Klotz fidato collaboratore di Leconte, è, infatti, semplice e funzionale allo stile antinaturalistico scelto dal regista di Tours per descrivere il progressivo avvicinamento dei due uomini e la loro comune illusione di fuga dalla realtà. Manesquier è una persona colta e garbata che vive da sempre in una casa fatiscente, colma di reliquie e ninnoli dove per lui “tutto si è svolto e tutto si svolgerà” e nel cui imponente salone un dipinto raffigurante un nudo di donna è stato testimone dei suoi amori solitari e pittorici. Ha sempre voluto essere qualcun altro ma non potendo rimpiangere, come il Thomas di “Toto le héro” (di Jaco Van Dormael, 1991); di essere stato scambiato nella culla con il figlio del vicino, sfoga la sua malinconia guardando il resto del mondo con leggero distacco e autoironia. L’incontro con Milan risveglia la sua curiosità permettendogli di vedere da vicino un mondo che finora lui aveva solo vaneggiato sul grande schermo. L’ospite inatteso si rivela un personaggio difficile, introspettivo che risponde alle continue digressioni di Manesquier (“le parole sono la sua rovina” dice al professore) con pochi sguardi fissi e intensi degni del miglior Humphrey Bogart. Il professore è un personaggio che, come nei più intriganti romanzi di George Simenon, appare metodico e abitudinario ma nasconde dentro di sè una grande carica di ribellione pronta ad esplodere e “creare lo scompiglio nelle menti ordinarie” mentre Milan, con alle spalle almeno 70 anni di letteratura “polar”, arricchisce la galleria dei banditi stanchi, leali, orgogliosi e crepuscolari immaginati dal maestro Leo Malet. Leconte per rendere cinematograficamente la diversità tra i due protagonisti sottolinea le apparizione di Manesquier con la malinconica musica di Schumann “che lusinga il suo senso del fallimento” e la gestualità impassibile di Milan con gli accordi west coast di Ry Cooder. Anche la fotografia asseconda la messa in scena alternando al color ocra negli antichi interni della casa a un azzurro livido delle riprese in esterni della preparazione della rapina. I personaggi, attraverso una regia estremamente stilizzata, sono inquadrati spesso in primo piano e da diverse angolazioni che ne accentuano l’isolamento rispetto all’ambiente ad eccezione delle sequenze di dialogo tra i due protagonisti, ripresi dalla mdp con classici campi/controcampi.
Tra “l’avventuriero e il previdente” si crea una progressiva intimità che diventa una sorta di osmosi quando vediamo Hallyday inossare le pantofole, fumare la pipa e suonare il piano del professore e raggiunge l’apice nella memorabile scena in cui Manesquier indossa il giubbotto di pelle, impugna la pistola di Milan e davanti allo specchio recita la parte dello sceriffo Wyatt Herp a Tombstone che si prepara per la sfida all’OK Corral. Leconte affianca al duetto con una serie geniale di personaggi secondari tra cui spicca il giardiniere della villa con la falce in mano che sembra la morte e che Manesquier non si aspetta mai di vedere, l’amico di Milan che “incontra spesso la bottiglia” perché bere crea legami e parla con insospettabile competenza di pittura e uno dei complici nella rapina che, da quando è stato lasciato dalla moglie, pronuncia ogni giorno alla stessa ora una sola frase perché prima riflette e poi si riposa. Nella seconda parte del film, la sceneggiatura si rivela debole e didascalica fino al finale inutilmente esplicito e il cui onirismo risulta stridente con il tono generale della pellicola. Le ultime ore passate sulla terrazza della villa prima del fatidico sabato (“l’eternità dura sempre fino a sabato” dice Manesquier) in cui avrà luogo la rapina e in cui il professore sarà operato di un brutto male, rende la coppia inseparabile e consapevole di viaggiare senza scelta verso un destino segnato con cui si sono per una volta divertiti a giocare. Notevole la prova degli attori, in particolare la recitazione di Rochefort che certamente meritava il leone d’oro. Lo stile da commedia, la trama e personaggi da noir sono gli elementi principali di questo omaggio, ricco di tenerezza e malinconia, alla poetica decadente degli sconfitti. A quasi trent’anni dal primo lungometraggio, Leconte si tributa un’autocitazione nella sequenza in cui Rochefort si reca dal barbiere (“Il marito della parrucchiera”, 1988); del resto, lo stesso regista ha più volte dichiarato che ogni suo film è solo un omaggio a se stesso.
A cura di Raffaele Elia
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