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cultura dell'immagine e della parola

Reportage sul Torino Film Festival

Penso di non esagerare nel definire il Torino film festival l’appuntamento italiano più importante per il cinema, come dire? indipendente? no, ecco, la cosa migliore, sarebbe definirlo cinema ”hideout”, neanche a farlo apposta.
Sì, perché il programma, studiato a tavolino seguendo, penso, antiche tecniche shaolin, incastra alla perfezione qualcosa come 50 proiezioni al giorno, senza contare presentazioni di libri sul cinema, conferenze, incontri con registi.
Quest’anno Stefano della Casa ha voluto fare le cose in grande e ha stupito tutti quanti aprendo il festival con il nuovo film di Christina Ricci, “Pumpkin” e, una settimana prima che uscisse ufficialmente nelle sale italiane, con il nuovo thriller di Cristopher Nolan, “Insomnia”.
Mentre “Pumpkin” resta solo un confuso tentativo di sconfiggere gli stereotipi della società americana, rivoltandoli ogni qualvolta si propongano sulla scena, “Insomnia”, a mio giudizio, è proprio un bel film.
A parte la presenza di Al Pacino, che potete pure dire che c’ha la lopecia, ma resta sempre un papa tra questi commedianti hollywoodiani da troppi soldi, è da segnalare l’interessante partecipazione di un tranquillo pervertito nascosto nel corpo di Robin Williams e di una gelida, ma efficace Hilary Swank. Christoper Nolan non poteva stupirci ancora: dopo “Memento”, penso che fosse difficile eguagliarsi. Ma questo thriller, più che lavorare sulla psicologia di un assassino che rovina la quiete di un gelido paesino dell’Alaska uccidendone una piccola abitante, lavora sulla malattia del poliziotto che insegue, che dovrebbe essere sicuro, impavido, insomma eroico. E invece. Invece, dopo aver ucciso il suo compagno per errore, la nebbia confonde la vista ad Al Pacino e gli fa scambiare il collega per il maniaco, lo uccide, e il dramma esplode, incomincia a sentire dentro di sé il peso di anni di carriera, di casi risolti grazie a prove inquinate da lui medesimo. Il suo obiettivo è sempre stato quello di sbattere dentro i rifiuti sociali a tutti i costi, anche se le prove non esistevano, utilizzando bugie come arma d’attacco, come in questo caso.
Egli infatti accusa l’assassino della piccola di essere anche l’assassino dell’agente.
Si trova così preso da questa crisi di coscienza, mentre Robin Williams, che nel film è uno scrittore da supermercato prima di essere un pedofilo doc, lo fa impazzire con domande stupide paragonando il suo omicidio a quello commesso dal vecchio poliziotto, ricattandolo, essendo l’unico ad aver visto il proiettile di Al Pacino conficcarsi nel cuore del compagno, facendolo delirare nell’insonnia di un paesino dove il giorno non finisce mai, almeno per sei mesi.
Ma oltre la storia, che capisco possa magari appassionare solo gli amanti del genere, è fondamentale geniale il montaggio e l’uso della macchina da presa.
Un regista americano attento alle capacità offerte dal mezzo e dalla tecnologia in continua evoluzione sulla strada del thriller.
Già, thriller. Thriller e cinema dell’orrore sembrano i capisaldi attorno cui far ruotare la rassegna di quest’anno iniziando ad affrontare il tema nel modo migliore, con una splendida retrospettiva su tutti i fantastici Frankestein diretti da Terence Fisher tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’70 e interpretati da Peter Cushing, attore non troppo noto, che però ha dato alla storia del cinema un dottor Victor Frankestein indimenticabile. “Frankestein-the revenge”, “Frankestein created woman”, “Frankestein destroyed him”, “Frankestein and the monster from the hell”, sono i titoli presentati.
Interessante, e molto intelligente, lo sguardo dato al nostro cinema di genere, con la presenza di un documentario sul cinema del terrore dagli anni’60 agli anni’80, iniziando dagli Dei Mario Bava e Pupi Avati, passando per Antonio Margheriti, Sergio Martino, Lucio Fulci, arrivando a Dario Argento e concludendo con il Lambertone trash Bava. Come chicca, è stato rimasterizzato, pulito, restaurato insomma, una pietra miliare del cinema degli anni ’70, “Non si sevizia un paperino”, presentato in sala da Miss Barbara Bouchet, la mitica attrice sexy, protagonista con Tinì Cansino, Gloria Guida e Edwige Fenech dell’epopea delle commedie all’italiana degli anni di piombo.
Ma all’organizzazione del Torino Film Festival tutto questo non basta ancora evidentemente, se ci propone, così come niente fosse, la filmografia completa del più grande regista horror contemporaneo: Larry Fessenden.
Regista indipendente per antonomasia, dagli anni ’70-80 lavora per riuscire a riportare al cinema di genere il prestigio del cinema di serie A. Ha aperto anche una casa di produzione con cui fa video musicali e corti deliranti, la Glass Eye Pix, stampa anche i dischi del gruppo in cui canta, i Just Desserts. Lui, Larry, è un alcoolizzato da competizione e i tre film, finora girati analizzano, in chiave postmoderna, gli archetipi dell’horror ottocentesco.
“No telling”, del 1991, è un “Frankestein rurale con animali”, come viene definito dal regista stesso, “Habit”, del 1997, è un vampiro metropolitano, sessofilo, ubriaco di New York, “Wendigo”, è una storia di fantasmi, spiriti indiani che infestano il tranquillo week-end di una perfetta famigliola yankee.
Larry Fessenden è diventato il mio regista preferito e nel giro di una settimana ha spazzato via i preconcetti sul digitale o sul cinema indipendente che avevo a causa di brutti movies che ho visto in passato. Un consiglio: sentite attentamente ciò che vi vuole dire.
La manifestazione, comunque, è diventata famosa a livello internazionale soprattutto perché è in grado di dare sempre un ampio spazio a giovani registi di tutto il mondo, con il concorso di cortometraggi, spazio Kataweb, e quello di lungometraggi, tra cui, questi ultimi, consiglio “Durval Discos”, filmato girato con semplicità, una grande sceneggiatura, e ottimi attori calati perfettamente nel ruolo non sense attribuito loro dal regista. Film brasiliano, e non ci sembra un caso, visto che negli utlimi il cinema sudamericano, specie cileno e brasiliano, ci hanno mostrato la loro immensa capacità di raccontare stori forti, vere, una capacità che il nostro cinema europeo ha un po’ perso da alcuni anni. A proposito di cinema brasiliano, quasi a conferma di quanto appena detto, importante e mastodontico, l’omaggio fatto a Julio Bressane, con la proiezione di ben 35 suoi films.
Alla fine della prima settimana già stavo male, per tutta questa concentrazione cinematografica in così poco tempo. Perché il masochismo e l’amore per la macchina filmica ti portano a vedere più movies possibili, e quindi ti ritrovi bloccato in sala già alle 10 del mattino, brevissima pausa pranzo di un quarto d’ora, e poi fino all’una di notte giù a divorare pellicola e a diventare ciechi. Esperienza unica, da rifare, è ovvio, ma uscire da una sala e vedere tutto ciò che ti circonda a forma d’inquadratura non è proprio il massimo. Oltretutto, l’ultimo film potrebbe anche trattare dell’omicido dei tuoi genitori che ti sembrerebbe un tranquillo cartoon Disney.
Tutto, ti diventa freddo e indifferente e incominci ad accusare la sovraesposizione alle immagini.
La seconda settimana è stata affrontata, quindi con più cautela, ma con la stessa tenacia e passione.
Il mio obiettivo è arrivare ai livelli di Enrico Ghezzi, che si aggira nevrotico e solitario per li corridoi del Pathè Lingotto, multisala da 11, con fare circospetto, non si perde neanche un film tra quelli dello Sri Lanka e quelli armeni, sembra parlare da solo e quando lo vedi scrivere, probabilmente sta studiando piani diabolici per distruggere il cinema italiano. Qualcuno dice che si nutra dei pocorn schiacciati e smangiucchiati che restano sulle poltroncine e si disseti leccando i pavimenti intrisi di cocacola e bevande appiccicaticcie. Quest’ultimo dato non è stato, però, ancora confermato. Quel che è certa, è la ruffianeria che gli hanno fatto, offrendo la proiezione, il più delle volte prima assoluta in una sala italiana, di speciali sul cinema giapponese.
All’interno della rassegna nipponica, un cult-movie splatter come “Ichi the Killer” non poteva mancare. Capolavoro di qualche anno fa, la cui violenza esagerata e sadomaso compensa con l’orrore dei film descritti in precedenza, si presenta come una nuova ondata di cinema gore scomparso ormai dai nostri schermi.
Nessuno poteva perdersi il documentario su John Woo (Who’s Woo?) e il travolgente documentario sulla storia dello skate e sulla sua evoluzione partita dalla moda del surf scoppiata negli anni ’60 (Dogtown and the z-boys): assolutamente da avere! Ma con Bruno Fornara come vate della manifestazione non poteva mancare un occhio al cinema western con tutta la retrospettiva sul cinema di John Ford, padre indiscusso del western, con conferenza del suo allievo primo, John Milius, un ciccione buontempone maschilista, regista, tra gli altri di ”Conan il barbaro”, “Un mercoledì da leoni”, “Alba Rossa”. Summa del suo pensiero, questa frase: ”Esistono due tipi di carne: quella da cucina e quella da letto”.
Ogni commento credo sarebbe superfluo.
Oltre ai temi della virilità e della superiorità dell’uomo, Milius è figlio della nuova corrente destroide americana. Ed è rimasto forse l’ultimo fan accanito del rapporto USA-URSS.
Il regista più fascio dai tempi di John Ford, è il miglior commento che i giornalisti hanno trovato per identificare il personaggio.
Anche per lui, un piccolo regalo, con la visione di una decina dei suoi lavori meglio riusciti.
Martedì è stata la volta di Cronenberg.
“Spider”, la sua ultima impresa, non si presenta come un classico del regista, ma la scultorea e psichedelica presenza di Ralph Fiennes fanno [img4] del film, tratto da un romanzo di Patrick McGrath, una nuova perla del re del cinema nero. ”Spider” è il soprannome affettuoso di un ragazzino quasi autistico, che costruisce ragnatele di filo per intrappolarsi nei labirinti che ama crearsi nel buio della sua stanza, mentre immagina papà andare a donnacce, la madre tanto amata, quasi edipicamente, uccisa per mano del genitore sporcaccione, sostituita da una di queste troie, la più accanita, la più crudele e avvinazzata. Una terribile verità che si cela dietro queste sue folli e intricate visioni.
Con questo film, Cronenberg ci dimostra di poter fare ormai ciò che vuole con il cinema e nel cinema.
Padrone assoluto del mezzo, potrebbe girare la storia più banale del mondo che non ci sarebbe spettatore che in ogni caso rimarrebbe incollato alle sue trame aracniche fino alla fine, accorgendosi troppo tardi di essere stato raggirato dal geniaccio creatore.
Ma la vera figata, permettete il termine, della settimana è la presenza di un maestro di vita come Roger Avary.
Lo vedi arrivare vestito come il grande Lebowsky, con sti capelli lunghi biondi marci da metallaro anni ’80, sembra un Hetfield resuscitato, un epico Sigfrido in chiave gangster.
Fedele cosceneggiatore di “Pulp Fiction”, regista di”Killing Zoe”, con questo “The Rules of Attraction”, tratto dal libro omonimo del signor Bret Eston Ellis, quello di American Psyco per intenderci, la sua figura si èleva nell’olimpo dei filmakers più potenti degli ultimi anni.
Solo due cose per farvi capire la superiorità di quest’uomo fenomenico: dopo anni di gavetta televisiva, ha utilizzato, per dissacrazione credo, come protagonista Dawson di “Dawson ‘s creek”, James Van der Beek all’anagrafe, e lo ha trasformato in uno spacciatore di bamba, dedito alla masturbazione e allo scopare occasionale come abitudine e stile di vita, inzuppato fino all’uccello di ottimo Jack Daniels e turpiloquio gratuito. Questa è la prima cosa.
Come se non bastasse, alla presentazione del film, Mr Avary che, nonostante tutto, parla come un libro d’inglese DeAgostini tanto è preciso e chiaro, ci ha concesso questo aforisma come massima di vita, che mi sembra la conclusione migliore, non solo di questo articolo, ma di tutto un festival che non ha basato la sua forza sul piagnisteo o sull’amore all’inglese, ma sull’orrore della vita e sull’instabilità, temi molto più reali e, soprattutto, meno commerciali. Più hideout, insomma:
“Durante il film, siete liberi di fare ciò che volete. Potete ubriacarvi, drogarvi, scoparvi la vicina di posto, picchiare i vostri amici, se ne avete voglia. Potete anche urlare, ridere, applaudire, insultare, sputare, vomitare. L’importante è che partecipiate totalemente alle emozioni di questo film.
Perché cazzo, questo non è un fottuto film francese. Questo, è Rock’n’roll!”

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