Ex Luce Tenebrae
Ex Luce Tenebrae
di Guglielmo Maggioni ****
Lo si aspettava al varco, Cristopher Nolan.
Quante volte giovanissimi registi, autori di piccoli cult indipendenti al passaggio nel mainstream, con a disposizione budget più elevati, non hanno mantenuto le promesse o quanti altri non sono riusciti a colpire nel segno come nei primi film (Kevin Smith, Van Sant o Kassovitz).
La storia si ripete: esordio nel lungometraggio a 28 anni con un giallo in bianco e nero (“Following”, 1998) che vince premi a festival indipendenti (Rotterdam, il Sundance) e gli permette di girare la seconda opera con Guy Pearce, quel “Memento” che genialmente smonta, destruttura il genere noir e non solo con un’idea di straordinaria semplicità ed efficacia (è mantenuta una progressione lineare ma a ritroso nel tempo): è nomination agli oscar per la sceneggiatura (che è del fratello); ora può pensare ancora più in grande.
Così il nostro si trova un remake, più soldi e il rischio di dirigere un mostro sacro come Al Pacino.
Il tutto a trentadue anni.
C’era di che temere.
Terzo film, dunque, e ancora un giallo: gioca in casa, insomma, e rispetta le regole del gioco (almeno alcune): in primis (of course) l’assassinio con annesso assassino da trovare, il vecchio detective (che sa come va il mondo); la giovane e innocente adepta.
Poi, da subito, le novità, gli elementi disturbanti, che stridono con le norme acquisite del genere: il tutto si svolge in un paesino dell’Alaska (grandi spazi, natura incontaminata) dove, nel periodo in cui l’azione ha luogo, il sole non tramonta mai, luce perenne e il vecchio detective in trasferta ha qualche scheletro nell’armadio con la disciplinare a tallonarlo.
L’uccisione del suo collega per errore non è d’aiuto.
Se in più c’è un testimone d’eccezione come l’assassino tutto diventa più complesso.
A differenza del film precedente, dove lo scardinamento del genere era manifesto, esplicito e violento, qui Nolan la prende larga: apparentemente più rispettoso, procede dall’interno e lentamente le categorie classiche (il buono, il cattivo) sono erose, perdono la loro esattezza, i contorni sono via via sempre più sfocati. Rispettoso, crea una rete di interrogativi che vanno ben oltre il chi è stato e come (già a metà lo sviluppo dell’omicidio è chiarito) per addentrarsi in campi meno battuti dai thriller medi (giustizia, etica).
Senza una trovata così forte come nel precedente, crea comunque un noir anomalo, disturbante che pone interrogativi più che risolvere banali quesiti, utilizzando magistralmente lo scenario di luce abbagliante e perenne (unica vera manifesta infrazione del thriller classico) che diventa a volte potente metafora (come nella lotta disperata di Pacino per cercare l’oscurità a lui necessaria per dormire che diventa l’incontrollabile venire a galla dei fantasmi della propria coscienza).
Non un autore che con presunzione vuole oltrepassare un genere per approdare a temi più complessi perdendo la bussola, ma un regista che conosce a fondo le regole del gioco e le infrange per creare complessità, senza per questo perdere di rigore.
U perfetto esempio di thriller, che più che addentrarsi in territori che non controlla, delinea una rotta più lunga e tortuosa, ma che arriva perfettamente a destinazione.
Non artista pretenzioso, ma ottimo artigiano.
Più l’Welles de “L’Infernale Quinlain” che “Delitto e castigo”.
Almeno una scena da antologia: un inseguimento su tronchi galleggianti in soggettiva dove il “buono” se la vede male.
Straordinaria l’interpretazione di Al Pacino (con l’insonnia del titolo che lo rende giorno dopo giorno sempre più disfatto in progressione con l’accumularsi della tensione e dei suoi sensi di colpa).
Un opus n°3 che non delude, ma conferma un talento.
Che fine ha fatto il film di genere?
di Francesco Mazza *
Il postulato che fino a ieri era riconosciuto da chiunque si occupi di cinema è questo: un film mediocre sostenuto da una grandissima promozione può essere un gran successo di pubblico ma certamente non di critica. Fino a ieri, appunto. Fino all’uscita di Insomnia, per laprecisione.
Un pugile fuori misura. Questo sembra essere, sotto ogni aspetto, l’ultimo film di Christopher Nolan, giovane regista inglese affermatosi con il controverso esercizio di stilistico di “Memento”.
Se da un lato è apprezzabile lo sforzo del regista di muoversi “aldila’”, di spingersi oltre i confini del commerciale, dall’altro sembra evidente come egli abbia finito per andare troppo oltre, forzando oltremisura una discreta sceneggiatura per cercare di cavarne un improbabilissimo “
film d’autore”.
Notevole, senza dubbio, la regia delle sequenze in soggettiva visiva e uditiva in cui Al Pacino è quasi sopraffatto dal sonno, ma a conti fatti questo resta l’unico acuto del film.
Se si pensa ai personaggi, ad esempio, nonostante la solita grande prova attoriale offerta da Robin Williams e dal già citato Al Pacino, la loro struttura drammatica sembra piuttosto imperfetta. Il buono non è un vero buono, e, visto il tema tristemente d’attualità, ciò impedisce l’identificazione del pubblico; il cattivo non è un vero cattivo, non spaventa, non repelle, non fa pena, sembra lontano dall’essere riuscito (meglio poi tacere sui personaggi secondari, scelti in base a chissà quale logica produttiva, in grado solo di offrire una piattezza davvero fuori dal comune).
Con questo si potrebbe già chiudere l’analisi, in virtù dell’Hitchcockiana massima del “più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”, e dare a Insomnia ciò che si merita. Ma è interessante constatare come il problema-personaggi sia solo il parto di un problema molto più grande, quello relativo alla gestione della struttura narrativa.
Volendo a tutti i costi “fare l’autore”, Nolan molla gli ormeggi del tranquillo e sicuro film di genere e inizia a navigare a vista: una visitina a Dostoevskij e al suo “Delitto e Castigo”, un’altra ad Hitchcock e a “Strangers on a train”, una gita nella psicanalisi, un tuffo nella cine-attualità, sempre usando la bussola della retorica scontata. Purtroppo per il coraggioso cineasta la sua nave imbarca acqua ad ogni virata: i temi sono, nei casi migliori, accennati, e nei peggiori inseriti a casaccio.
E così, il finale coincide con il più drammatico dei naufragi: un’irritante e banale sparatoria fa della morale l’unica vincitrice della contesa, uccidendo definitivamente le superstiti speranze.
Posto che la fotografia svolge il suo compito senza infamia e senza lode e che le ambientazioni risultano spesso povere e sbiadite, restano due grande misteri: come sarebbe stato il film se fosse stato realizzato da un regista più concreto e meno supponente? E come hanno fatto vati e nomi illustri della critica italiana per concedergli tutti la tripla stella? A voi la (facile) sentenza.
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