Le (poche) luci del nostro futuro
Secondo le parole di Philip K. Dick: “un film si muove, un libro parla, questa è la differenza”.
Si muove la spielberghiana versione del “rapporto di minoranza”. Le immagini corrono, sullo schermo, e il mondo nel quale ci addentriamo, nel quale siamo calati dal regista, è un mondo che si muove. Non parla.
“Minority Report” aggiunge alcuni elementi al racconto dickiano, ne toglie alcuni altri; questi ultimi a mio avviso affascinanti; le aggiunte invece sono particolari fantasiosi, romanzesche situazioni.
Tra le differenze, segnalo la diversa natura della macchinazione dentro cui cade Anderton, e il diverso epilogo; di minore fascino le variazioni cinematografiche. Le aggiunte, al contrario (uccisione del figlio, cambio d’occhi, fuga col mutante) sono puro e semplice spettacolo.
Meno ad effetto, più ragionevoli le piccole “immaginazioni” che la pellicola offre: parlo dell’invadenza pubblicitaria, della creazione di un mondo, quello del 2054, quale dettagliato sfondo ai personaggi.
Ché di ciò intendo parlare: sarebbe il mondo ricreato da Spielberg piaciuto a Philip Dick? Le inevitabili differenze tra carta e pellicola sono mera elencazione.
Quando, nel 1982, agli sgoccioli della sua esistenza, Dick può vedere alcune immagini del venturo “Blade Runner” di Ridley Scott, se ne dichiara entusiasta: “ la cosa più meravigliosa che io abbia mai visto”.
Il mondo che lo scrittore aveva immaginato quattordici anni prima è colto, da Scott, con successo. Un modo cupo, decadente, fumoso, desolante. Forse non il mondo fittizio della narrazione: forse semplicemente il nostro futuro.
Dick si rammarica della mancata trasposizione, in film, di alcune sue invenzioni; del resto è ben conscio che: “il libro era costituito da circa sedici intrecci, e avrebbero dovuto girare un film di sedici ore. Sarebbe stato impossibile. Non è così che si ricava un film da un libro”;
Blade Runner piacque allo scrittore: in quell’alone di opaco, di stravissuto, di cui ogni cosa, strade macchine, edifici volti, è rivestita.
(Nell’orwelliano “1984″ la vicina di casa di Winston, il protagonista, ha polvere sin dentro le rughe del viso).
Ora vediamo come Spielberg intende il futuro che si muove dentro la mente di Philip Dick.
È un mondo di sole e ombre: tutto splende ai piani alti, la sporcizia viene messa sotto il tappeto. Come in “A.I.” si alternano caldi raggi di sole e spaventose tenebre.
Nel racconto di Dick immagino che i grandi carrarmati dell’esercito non riflettano i raggi del sole, bruniti come corazze di una compagnia di ventura. Mi figuro un cielo nero, anche di giorno, quasi che lo spettro della guerra civile ricopra la città di desolazione. Spielberg la città dickiana se l’immagina comunque calda, verde. ( Il robot David e sua madre si abbracciano nel prato di fronte a casa).
Nei bassifondi povertà grigio disperazione. Ma nella città futura del racconto di Dick neanche i piani alti, il bel mondo dei ricchi, riescono a bucare la cappa che spegne i raggi. Dietro al vetro di una finestra vedo gli arabeschi della pioggia che batte, non certo il pulviscolo che attraversa il raggio giallo di sole: la culla di luce materna del finale di “A. I.”
Lasciamo parlare Dick: ”… ciò che posso dire è che il film e il libro si rinforzano a vicenda. Ossia, se vedi prima il film e poi leggi il libro, ne ricaverai un materiale più ampio di quello che avevi guardando il film. Se invece inizi con il libro, puoi andare al cinema e ricavarne ancora. […] Libro e film non lottano tra loro”.
Queste parole a proposito di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” e “Blade Runner”.
Nel caso di “Minority Report” ho il sospetto che Philip Kindred Dick si sarebbe espresso in maniera diversa. Visivamente trovo il film di Spielberg molto poco dickiano.
Questo regista proprio non ce la fa, a moderarsi col colore.
Philip K. Dick, Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci editore, euro 12,5
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A cura di Mario Bonaldi
la sottile linea rossa ::