Un lampo di felicità in un palloncino rosso
“Quando faremo della compassione un valore?” tuona “Hunger” Patch Adams, il medico famoso per aver inventato la “sorriso-terapia”, vestito da pagliaccio nel corso della conferenza stampa tenutasi a Roma alla vigilia della partenza che porterà 23 clown-dottori e 15 volontari a Kabul per una missione umanitaria. E’ partita così, lo scorso febbraio con questo spirito un po’ irriverente e perfettamente rappresentato dalla lunga e anarchica coda di cavallo del medico americano l’iniziativa (controcorrente) del Comune di Roma. Scorrono le immagini di piazza del Campidoglio dove tanti clown giocano all’aperto con festanti bambini della capitale quando un mascherino nero in stile cinema muto si chiude e si riapre: siamo sull’aereo dell’Aeronautica Militare che porterà la missione in Afghanistan. La mdp stacca con immagini senza sonoro sulle case/alveare nel deserto afghano dove tra la sabbia camminano come fantasmi donne silenziose con le vesti cullate dal vento e dietro le montagne due scie parallele di fumo bianco annunciano l’arrivo dei clown che poco dopo scenderanno allegramente dall’aereo sulle note di Nino Rota in un affettuoso omaggio a Federico Fellini. Da questo momento inizia il reportage di Balestrieri e Moser che “pedineranno” i volontari mentre cercano con una smorfia e una scenetta di recare sollievo alla gente provata dalla recente operazione “libertà duratura”. I clown arrivano al centro ortopedico della Croce Rossa internazionale dove il personale lavora duramente in silenzio già “dal tempo dei russi” e al centro di Emergency dove Gino Strada spiega che “stanno cercando di comprare anche il mondo umanitario” regalando soldi a tutti spalleggiati da un’informazione blindata. La visita prosegue all’Ospedale “Indira Ghandi” dove Patch Adams, che ci appare molto meno convenzionale e caricaturale dell’interpretazione che ne diede Robin Williams nel 1998 (“Patch Adams” di Tom Shadyac); lascia cadere qualche lacrima lungo il grande nasone rosso di plastica perché è anche questo “l’effetto di stringere tra le braccia un bambino denutrito solo perché il benessere ha deciso di farlo morire”. La sequenza della medicazione della bambina martoriata dalle bruciature che grida disperata accanto a due clown della missione che suonano il violino e le fanno le boccacce è spietata verso lo spettatore e sembra non finire mai. La carrellata sulle protesi alle gambe causate dalle mine completa quanto già visto in “Viaggio a Kandahar” (di Mohsen Makhmalbaf, 2001). Per i partecipanti alla missione sorridere tenendo tra le braccia bambini menomati dalla guerra si rivela più difficile del previsto, pochi minuti per una sigaretta e un pianto trattenuto e subito si risale sul pullman verso un’altra recita; durante il percorso ci sarà giusto il tempo per un veloce trucco colorato che coprirà di mascara occhi stanchi e commossi che hanno visto da vicino il dolore. E’ sufficiente un gruppo di volontari con il naso rosso, le scarpe colorate, i pantaloni con le bretelle e la giacca rattoppata per risvegliare nei bambini afghani un po’ di curiosità nella vita. I loro sguardi sembrano a tratti conquistati dalla magia di queste apparizioni venute da lontano come solo nell’infanzia è possibile, anche nell’infanzia violata. La mdp si apre a spazi di realtà di strada seguendo nelle piazze e nei cortili degli orfanotrofi le rappresentazioni improvvisate dei pagliacci che riescono a portare allegria perfino nella scuola dove si insegna ai bambini ad evitare le mine. Una bambina, però, continua a piangere anche tra le braccia di un medico, sembra impossibile farla ridere, poi un clown le porge con delicatezza un palloncino rosso, la bambina lo stringe nella mano, accenna un sorriso e si allontana con il vecchio nonno dalla biblica barba folta e rossa. Ogni sorriso di un bambino è, per lo spettatore occidentale, un colpo diretto al cuore e le lacrime non si fermano più; forse perché siamo abituati in tv a vedere i bambini del terzo mondo sempre con lo sguardo triste e perso, questi sorrisi ci sconvolgono più del dolore. Forse, come è successo a uno dei volontari intervistati, “questo viaggio ha svelato parti del nostro cuore che non conoscevamo” ricordandoci che è possibile rispondere alla violenza anche senza la vendetta e il terrore. Durante una pausa tra gli interminabili spostamenti che nelle tre settimane di viaggio porteranno il gruppo da Kabul lungo le valli del Panshir fino a Bamyan (dove sono inquadrate simbolicamente le rovine dei Budda distrutti dai Talebani) sentiamo Patch con l’orgoglio del pioniere dire agli altri componenti della missione “Abbiamo portato i clown fuori dagli ospedali, ora li portiamo in guerra”. La regia, sotto la supervisione artistica di Ettore Scola, si rivela molto attenta nel catturare e nel montare in sequenza i volti e le espressioni degli attori improvvisati mantenendo, al contempo, una rispettosa distanza dal dramma che vive dall’altra parte della cinepresa. Anche se risulta fin troppo facile creare commozione con un montaggio alternato di carcasse di carri armati, di bambini che piangono e di clown, le immagini ci ipnotizzano e la musica struggente composta da Piovani e Filastò asseconda con discrezione la commozione priva di retorica delle scene e le oniriche immagini del deserto. “Il cinema è fatto di arte e realtà” ha detto il padre del documentarismo moderno, Robert Flaherty, ma in questo caso la forte emozione che si prova rende veramente arduo esprimere un giudizio sul valore artistico e tecnico del film, presentato al 59° Festival di Venezia nella sezione “Evento speciale”, e consiglia di ringraziare a priori i due registi romani. La volontà, la caparbietà e l’impegno dei medici-attori è spiazzante e, anche se con una buona dose di cattiva coscienza, questa missione ridà a noi cittadini europei un po’ di orgoglio e di speranza sulle nostra capacità di usare il cuore e l’intelligenza.
A cura di Raffaele Elia
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