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cultura dell'immagine e della parola

Bagni nella laguna II

Pianti, malattie e guaritori shakerati senza senso

JULIE WALKING HOME
*

Di: Agiezska Holland
Con: Miranda Otto, William Fichtner
Origine: Polonia 2002
Durata: 118 min

Lei scopre lui con un’altra, vogliono separarsi ma in mezzo c’è una casa da sogno e due bambini. Quando il maschietto però si ammala di tumore e si dimostra allergico alla Che mio, Miranda Otto parte per la Polonia alla ricerca di un guaritore….

Esiste un gioco di carte, si chiama Once upon on time, non so se lo conoscete.
Ogni giocatore riceve della carte dove ci sono raffigurati oggetti, azioni e personaggi che posso apparire in una storia, chessò, per esempio; mago, malattia, viaggio, principe azzurro, quelle cose lì.
Ogni giocatore riceva anche una carta con un finale, ad esempio e i due amanti si riunirono per sempre, e il primo che gioca tutte le carte immettendo questi elementi nella storia che ci si inventa e arriva al finale, vince.
Ai giocatori inesperti escono fuori sconclusionate storie senza capo né coda e ci si arrabatta con le parole per cercare di dare un senso al tutto.
Julie Walking home sembra scritto durante una partita a Once Upon of time fra alcolizzati che giocano a caso gli elementi della storia. Il “film” si snoda senza senso e, se nella prima mezz’ora qualche speranza di vedere un buon spettacolo resta, più si va avanti più la cosa degenera e non ti resta altro da fare che dedicarti a passatempi vari come guardare il soffitto del cinema o contare le poltrone della sala (in pala BNL ne ho contate oltre 1800!).

La trama ve la devo troppo raccontare, però.
Allora, lui tradisce Miranda Otto che si vuole separare ma al figlio spunta un tumore inguaribile. Il papà di lei, inguaribile cristiano, ha conosciuto per corrispondenza una vecchia Polacca (!) che conosce un magico guaritore (!) il quale, dopo aver curato il piccolo dal tumore, si innamorerà di Miranda Otto e, insomma, ‘sto guaritore mezzo scemo si rivelerà vergine (!!) e scoprirà le gioie del sesso in uno chalet dopo essere stato arrestato per aver difeso un cane (!!!). A questo punto mette in cinta la donna e quindi perde i suoi poteri (?) e, non potendo più curare il bambino a cui è tornato il tumore (?!) va via. Allo stacco successivo la famiglia è riunita, il guaritore è scomparso chissà dove e il marito e la moglie aspettano felici (???) che questa sforni il figlio del mistico rimbecillito. Fine.

Tutto questo condito da modaioli attacchi in asse vontrieriani in cui la giovane donna piange in primo piano dietro i vetri della doccia o dove il rintronato vergine gode in primo piano mentre la Otto è gli somministra un Fellatio. L’ unica scena veramente bella avviene in ospedale dove un altro bambino, sempre malato di tumore, spiega al giovane protagonista gli effetti del cancro con parole rabbiose che in bocca ad un bambino ti incollano alla sedia. Comunque sia il film non sa che direzione prendere. Voi, per favore, non prendete quella della sala cinematografica.

La violenza dovunque
***

11’09’’01

Di: Claude Lelouch, Mira Nair, Sean Penn, Shohei Imamura, Youssef Chahine, Ken Loach,
Samira Makhmalbaf, Amos Gitai, Alejandro Gonzáles Iñárritu, Danis Tanovic, Idrissa
Ouedraogo
Produzione: Studiocanal, Galatèe
Distribuzione: BIM
Origine: Francia, USA 2002
Durata: 135 min

La tragedia delle torre gemelle, ad un anno di distanza, è rivisto e riletto dai più importanti registi del pianeta in piena libertà artistica. Probabilmente il film non sarà proiettato in America, alcuni multiplex italiani lo hanno rifiutato.

Da qualche parte ho letto “Antiamericano”.
Antiamericano?
Antiamericano per gli americani, che come film commemorativo si aspettavano 131 minuti di bandiera che sventola, inno rombante e cattivi che muoiono. Questi cortometraggi sono invece undici sguardi intelligenti da tutto il globo, dove la tragedia americana viene rifagocitata per prendere la forma di una tragedia intima (Lelouch); di una denuncia storica (Loach) o di uno sguardo sul proprio paese (Ouedraogo, Makhmalbaf). Caratteristica accomunante è solo la durata (11 minuti, 9 secondi e un fotogramma) e la mappa del mondo con il nome e lo stato del regista prima di ogni episodio.
Così, nelle oltre due ore del film culture diverse mischiano coraggiosamente il loro pensiero senza riciclare all’infinito le ormai traginote immagini del crollo.

Una coralità che lascia nella testa scene come frammenti di una bomba, ognuno è libero di cogliere e criticare. Alcuni frammenti dell’esplosione:

I bambini diretti dalla Makhmalbaf che non capiscono perché la maestra vuol farli stare un minuto in silenzio dato che per loro la tragedia è un uomo del paese che è volato nel pozzo.

Lelouche, confinato in undici minuti, riesce finalmente a non essere indigesto e racconta una storia d’amore che crolla all’ora x, più interessato al dramma del singolo che al dramma collettivo. –Le immagini della televisione sono fatte per scomparire- asserisce il francese –e il nostro film è fatto per ricordare a lungo, per fissare in modo diverso quei momenti.
Poco importa se Loach lo fa mettendo una penna in mano ad un cileno che, scrivendo una lettera al popolo americano, ricorda il dramma del loro undici settembre e conclude il suo messaggio dicendo “noi non vi dimenticheremo, voi non dimenticateci.”

C’è spazio per lo schermo nero di Innaritu, regista di Amores Perros, che ci concentra su una melma di audio disperato fatto di crolli, urla, ultime telefonate a casa. Un granitico disturbo radio lontano, un rumore bianco su uno schermo nero.

Undici minuti del pianosequenza disperato di Gitai, c’è una bomba a Gerusalemme, ci sono corpi e sangue per terra, c’è una giornalista che ha fretta di andare in onda con le sue immagini della strada di Gerusalemme ma in questo momento il satellite manda in onda il dramma americano e in tivù non c’è posto per lei.

E, mentre nel toccante episodio di Penn il crollo delle torri da là luce alla finestra di un palazzo vicino in cui si consuma una tragica solitudine, un giapponese preferisce essere un serpente piuttosto che un essere umano, in africa un gruppo di bambini cerca Bin Laden per poter mettere mani sull’assurda ricompensa e non serve certo una cima di intelligenza per capire che coi soldi di quella ricompensa e di tutte le armi si potrebbe cambiare mondo. Non certo i sorrisi di rame di Johannesburg.

Il tema è forte, le risposte sparate dritte in faccia senza fronzoli e se l’America veramente non proietterà il film sarà un bel colpo per la nostra civiltà, le opinioni di questi registi non sono certo terrorismo: i loro nomi e le loro responsabilità sono scritti ben leggibili all’inizio di ogni episodio. Questo è terrorismo? Pensiero sovversivo?
Così diceva, stanco l’ultimo Bunuel:
Oggi la violenza è dovunque. Ci sono le guerre, le rivoluzioni, il terrorismo. La violenza non serve più a niente. Niente fa più scandalo.
L’arte aveva bisogno di armi. Oggi, le armi non servono più a niente. Io sono stato un terrorista estetico. Oggi ho orrore del terrorismo, anche teorico. Attaccare la violenza con la violenza è assurdo.

Attaccare la violenza con l’intelligenza no. Quindi tutti al cinema, per favore.

POLVERE DI WESTERN – THE TRACKER
***
The Tracker

Di: Rolf de Herr
Con: Page Grant, Gulpill David, Sweet Gary, Gamea Damon.
Montaggio: Nehme Tania
Produzione e distribuzione: Fandango
Origine: Australia 2002
Durata: 98 min

Tre uomini bianchi sono alle calcagna di un fuggitivo aborigeno nell’Austalia degli anni ’20. Una guida indigena li conduce fra il territorio australiano e più ci si addentra nelle terre selvagge più i ruoli sociali perdono lentamente definizione.

Il veterano.
Il giovane.
Il senza-scrupoli.
Il selvaggio.
I personaggi, definiti con tratto secco e preciso, attraversano la polvere e il sole del brullume australiano alla ricerca del fuggitivo. Hanno mezza giornata di svantaggio nei confronti della loro preda e, mentre l’indigeno li guida con mano sicura notando ogni piccola pietra spostata della sua terra, il senza scrupoli ne approfitta per far strage gratuita di indigeni facendo lentamente prendere coscienza al giovane che, inizialmente esaltato e spaccone, comincia a chiedersi il perché di tutto questo.
Dal canto suo il veterano guarda tutti con gli occhi piccoli e stretti. Lento avanza a cavallo, silenzioso viene eliminato da una freccia sparata da chissàdave, anzi, l’indigeno lo sa, ma no lo dice a nessuna e guarda avanti col sorriso nero e furbo.
Meno uno.
Dopo l’ennesima strage l’ammutinamento del senza-scrupoli da parte del Giovane, i tribunali e le urla non servono a nulla fra i cespugli e il sole accecante e il viaggio prende pieghe diverse guidato dai tempi lenti del western, dalle orme dei piedi nudi, dal passo del cavallo su cui spesso è costretta la macchina da presa che, altre volte, la fotografia contrastata e essenziale di Jones Iain piazza su pendii lontani lanciando secchi zoom, lontani anni luce dai leccati voli d’uccello che la cinepresa faceva accarezzando gli scenari del Signore degli anelli.
Qui a mozzare il fiato ci sono solo le frecce che tolgono la vita, il sole potente e le corde che impiccano sui neri alberi secchi, intervallate dalle canzoni scritte dallo stesso De Herr che la guida canta mentalmente, parole che cercano la dignità dei indigeni fra i primi piani dei cattivi risoluti. Un gioco sulla grammatica del Western reinventato per parlare di potere e di storia Australiana, in cui le scene più violente sono coperte da una sorta di autocensura; invece che il sangue e le crudeltà fissiamo i quadri quasi naif di Peter Coad mentre l’audio prosegue imperturbabile con le sue urla e i suoi dolori.

Il film, costato meno di un milione di dollari è stato realizzato da un’esigua troupe di quindici persone che per tutta la durata del film ha sopportato il lavoro in condizioni estreme in territori inospitali rendendo vissuta e selvatica ogni sequenza del film. E’ una terra vecchia, odora di vecchio, l’australia è la terra in cui vivo dall’età di otto anni aggiunge a voce bassa Peter Coad, cappello bianco da Cow – Boy e occhietti vispi mentre a fianco lui, l’espressivo attore aborigeno David Gulpil è vestito in un elegantissimo frac nero con ancora l’etichetta del negoziante sotto le scarpe, fuori luogo far tutti quei divetti, a suo agio solo sullo schermo, col suo sorriso selvatico.
Selvatico come il film.

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