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L’occhio di Kubrick

L'occhio di Kubrick

Dick Tracy? **
di Lorenzo Lipparini

Il simpatico tandem Spielberg – Cruise crea un film che non fatica a superare la sufficienza ma che tuttavia è ben lontano dall’emozionare o dall’essere invocato come capolavoro.
Qualche merito bisogna però riconoscerlo: si tratta di una realizzazione ponderata, senza esagerazioni, estremamente equilibrata nelle sue parti. Si risolve con un solo inseguimento importante e persino a piedi, senza micidiali sparatorie in luogo pubblico, niente esplosioni, una sola scazzottata che per fortuna non si prolunga all’infinito, paternali appena accennate, una inevitabile esibizione di automobili ma senza schianti clamorosi.
Una nota di merito quindi all’azione, che fa filare più di due ore di proiezione senza sentire peso, e alla mancanza di esagerazioni e di prolissità.
Simpatico, anche se alle volte invasivo, lo studio della pubblicità del futuro, offre degli spunti.
Quanto alla trama, la creazione zoppica un po’. È la storia già vista del buono che viene degradato al rango di “cattivo” da un’infame congiura che alla fine viene smascherata. Una specie di riedizione di Giudice Dredd con innesti di Nirvana, déja vu alla Matrix, la casa delle Charlie’s Angels e qualche citazione kubrickiana quando (come in Arancia Meccanica) si ravana negli occhi del protagonista per un improbabile intervento.
L’ossessione per l’Occhio permea tutta la pellicola, con primi piani e scanner oculari, ma poi tutto viene lasciato in sospeso come l’apparizione del saggio spacciatore cieco che ci ricorda che “nel paese di chi non ha occhi, chi ne ha uno solo è re” o giù di lì.
Non decolla nemmeno il discorso garantista che invece potrebbe proliferare. Cruise lavora per la Precrimine, un’agenzia sperimentale che si occupa di arrestare gli assassini prima che possano commettere l’omicidio pronosticato da giovani superdotati in trans, i Precog. Pochissime parole vengono spese per discutere di diritti del reo, di giusto processo, di necessità di prove. Se il progetto viene alla fine abbandonato è solo perché non sembra funzionare a puntino.
Qualche dubbio anche sull’impalcatura logica: se l’omicidio riesce ad essere impedito, cosa hanno visto i Precog nella loro divinazione? Il futuro è già predestinato o siamo liberi di scegliere? Basta ordire un piano malefico per far diventare un bravo agente di polizia un potenziale assassino senza che lui ne sappia nulla?
Insomma, il film è un bel passatempo, con tecnologia ed effetti speciali, ma in definitiva non convince.
Finale alla Hansel e Gretel.

Filosofia noir ****
di Alberto Brumana

Minority Report nasce dall’incrocio tra l’autore più immaginifico del secolo scorso e il più creativo regista contemporaneo. Le aspettative, insomma, erano molte, quasi tutte ripagate nella visione delle oltre due ore di pellicola del film di Spielberg.
La sceneggiatura, passata attraverso varie mani prima di essere conclusa da Scott Frank, prende il racconto di Dick come base, stravolgendone poi l’impianto narrativo e la struttura dei personaggi. Il film viene trasformato così in un noir quasi classico nella sua estrema modernità, intenzione confermata dai nomi dei tre precog Agatha (come la Christie); Conan come (Doyle) e Dashiell (come Hammett).
Il film può dunque essere visto attraverso tre diverse prospettive: come un action movie, e non mancano gli inseguimenti e i combattimenti tipici del genere, come un noir, e la suspence e i colpi di scena perdurano fino all’ultima scena, o come una metafora, che pone domande sul libero arbitrio e sulla funzione dello sguardo. Se già Dick, nel suo racconto, si domandava se un uomo potesse essere arrestato prima di commettere un crimine, la novità introdotta da Spielberg è proprio la riflessione sullo sguardo, che segue la pellicola dall’inizio alla fine. L’occhio, in Minority Report, non è più ciò che guarda, ma diviene esso stesso l’oggetto scopico. Avere gli occhi non è più importante per vedere, bensì per essere visti. Siamo insomma all’apice di quella parabola che, nel cinema postmoderno, ha portato a un ribaltamento del significato dell’organo della vista.
Nella realizzazione del film, ciò che risalta maggiormente è la grande devozione che il regista ha per Kubrick. Dopo A.I., che era un mix tra i due cineasti, anche qui molte atmosfere richiamano i lavori del regista americano. Oltre alla citazione diretta da Arancia Meccanica nella scena del trapianto di occhi, altri elementi meno evidenti lo confermano. Su tutti la scelta dell’illuminazione degli interni, sempre circondati da luminescenti nebbie. Ottimo è stato in questo senso il lavoro di Janusz Kaminski, il direttore della fotografia preferito da Spielberg che, dopo un deludente esordio da regista in un film (Lost Souls) memorabile proprio solo per la fotografia, ha deciso di tornare al suo vero mestiere.
Se una pecca è da trovare in questo lavoro, è quella tipica di Spielberg, cioè la creazione di un impianto drammaturgico forse eccessivamente patetico. Mentre nel racconto originale il detective Anderton era un vecchio pelato senza figli, nel film diventa un Tom Cruise complessato proprio per la perdita di un figlio. Senza bambini forse non potrebbe essere un’opera di Spielberg, ma almeno la scena finale poteva essere omessa.
Un quasi capolavoro, insomma, che forse non stravolgerà il genere come aveva fatto Blade Runner, ma che può essere accostato al lavoro di Ridley Scott tra le migliori trasposizioni di racconti dickiani, e che riconferma la creatività e la versatilità di un regista che, dopo qualche lavoro non perfettamente riuscito, è tornato ai livelli che gli competono.

• Vai all’articolo Minority Report: dal racconto al film

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