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Visioni di Cannes – Il principio dell’incertezza

SCHEDA

Titolo: Il principio dell’incertezza
Titolo originale: O princìpio da incerteza
Regia e sceneggiatura: Manoel DE OLIVEIRA
Fotografia: Renato BERTA
Montaggio: Manoel DE OLIVEIRA, Catherine KRASSOVSKY
Musica: Niccolo PAGANINI
Interpreti: Leonor Baldaque, Leonor Silveira, Isabel Ruth, Ricardo Trêpa, Júlia Buisel, Ivo Canelas.
Portogallo/Francia, 2002
Produzione: Gémini Films, Madragoa Filmes
Durata: 132′

Giudizio: *

Il teatro che sbrana il cinema e le sua magia. Senza tralasciare nulla, personaggi, interpretazioni e sceneggiature in primis. Non pare nemmeno vero di essere di fronte ad uno schermo. Piuttosto ci si trova dentro un corridoio nel quale il teatro ha perso tutto, luce e poesia, e che immancabilmente porta direttamente all’uscita della sala.
Pesantezza e fastidio, ecco la sensazione portante.
Molta critica ha parlato rispetto all’ultima fatica di De Oliveira, di cinema “eterogeneo”, che rispetto al cinema di rito riconosciuto – e che a Cannes ha fatto man bassa- è riuscito a dare qualcosa in più, a porsi fuori dal tempo e dai luoghi comuni.
Eppure, in questo caso il tanto sbandierato “principio d’incertezza” –talmente incerto e caotico che ingoia, distorcendolo nelle sue budella, il filo logico che la locandina non può non fare attendere – non vale sul giudizio della pellicola, irresoluto: seccante e sgradevole. Giudizio che viene principalmente influenzato da una soggettiva difficoltà a seguirne la trama. La vicenda, limpida all’inizio, già verso metà comincia ad attorcigliarsi su se stessa lasciando da parte quelli che sembrano obbligatori passaggi psicologici dei protagonisti. E questo lancinante senso di disagio lo si avverte particolarmente a causa dei pesantissimi toni e contenuti propinati. Uno spettatore che non abbia un’alta preparazione filosofico teologica, non riesce a riconoscere la semplicità, la rarefazione e il sottile senso dell’ironia tipici del De Oliveira che la critica tanto osanna. Triste se un film può essere apprezzato solo da quel manipolo di eletti, affascinati dai suoi intricati e mistico-filosofici livelli di meditazione. Questo film, va sottolineato, è stato accolto trionfalmente come crogiolo di tutti i suoi personali slanci stilistici. Regista prolifico, il novantenne portoghese – tanto da uscire con un titolo all’anno, quest’anno addirittura due – tende tuttavia ad abituare l’ “alto” pubblico con cinematografia sublime, ormai praticamente impossibile da non confondere con un suo personalissimo e deliberato manierismo.
Una storia di decadentismo, interpretata da cinque protagonisti che nella decadenza del mondo circostante non ci sguazzano certo, ma ne vengono consumati irreversibilmente e con cariche di nichilismo da lasciare mal di stomaco. Protagonisti dall’aria volutamente antipatica, supponenti fino alla rassegnazione, tanto sgradevoli da non essere sopportabili al solo guardarli e ascoltarli negli interminabili discorsi sul Bene e il Male, sull’immagine, la gloria della Vergine Maria e di Giovanna d’Arco. Insomma, un film che si carica di cornici che invece di alleggerire, offuscano l’idea già complicata del film. Film, che va ricordato, viene ripreso e mutilato vistosamente nei suoi passaggi, dal romanzo di Bessa Luis, di per sé molto arduo e presuntuoso da riproporre in versione cinematografica.
Certo lo si raccomanda ai fan del decano portoghese.

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