Blu malinconia, blu libertà
Primo dei “Tre colori” (blu, bianco, rosso, ovvero libertà, uguaglianza, fraternità); il film tratta il tema della libertà attraverso la storia, o meglio la vicenda psicologica, di Julie, che, coinvolta in un incidente stradale, perde marito e figlioletta. Lei si salva, ma stenta a sopravvivere ad un dolore indicibile. Da principio, abbandona tutto, legami, affetti, casa (“Adesso so che farò una sola cosa: niente”, “Non voglio più né proprietà né ricordi, amici, amori o legami: sono tutte trappole” confessa alla mamma anziana e malata); rifiuta l’aiuto e la compagnia dell’amico del marito, segretamente innamorato di lei. Kieslowski è regista tecnicamente superbo e squisito. Le scene sono dominate dal colore blu: il blu della piscina in cui Julie si tuffa, nuota, piange, elabora il proprio dramma interiore; il blu dei riflessi che magicamente si compongono sul viso dolce e triste di una donna colpita, debole ma non vinta; il blu dell’ecografia nella corale scena finale; il blu di un lampadario, unico oggetto di memoria cui Julie non rinuncia; il blu dello sfondo che chiude il film.
Ma Kieslowski, allo stesso tempo, come negli altri suoi film (quali il “Decalogo” e “La doppia vita di Veronica”); propone una riflessione impietosa e lucida, inquietante e misteriosa, sul destino e sul caso, sulla finitezza e debolezza nostre e dei nostri sentimenti, sull’ambiguità spesso sconsolante delle umane vicende: ma ciò che più affascina è che tale riflessione è condotta non in maniera fredda o intellettualistica, ma attraverso la forza di una regia e sceneggiatura sapienti, di figure controverse, di una rielaborazione del lutto (ed è qui una delle perfidie sottili ed atroci cui il regista ci ha abituato) che è pian piano favorita anche dalla scoperta che il marito aveva un’amante ora incinta… e Kieslowski ce lo fa intravedere velocemente all’inizio attraverso poche inquadrature, per poi svelarlo esplicitamente verso la fine, cogliendoci spesso spettatori distratti e disusi ai piccoli particolari della regia così come a quelli della vita…
Il marito di Julie, compositore, avrebbe dovuto completare un inno per l’unificazione europea; inizialmente, la moglie si rifiuta di portarlo a termine (la prima reazione è quella di voler distruggere ogni ricordo, non potendo riavere vivi i propri cari); poi, alla fine, è disposta addirittura a conoscere l’amante, pur di carpire qualcosa in più del marito e dei suoi segreti più intimi; sembra cercare, insieme all’amico, di completare l’inno e di riaggrapparsi alla vita paradossalmente anche attraverso il nascituro dell’amante…
Durante il film, si è affascinati da una serie di immagini e di figure tristi, misteriose, ambigue, accompagnate da una musica pura e coinvolgente. Per esempio, Julie che indica la piccola bara della figlioletta e risponde a monosillabi; le luci, i silenzi, le sinfonie che a tratti illuminano le scene, quasi ad esprimere le sofferenze interiori, altrimenti inesplicabili; alcuni temi ricorrenti nel Regista: l’immagine di Julie che vede un’anziana signora che, a fatica, riesce a buttar via un vetro vuoto; l’incontro di Julie con la mamma, che ha perso in parte la memoria e che fissa la televisione che proietta immagini che rievocano l’instabilità, il pericolo incombente che grava su ogni destino umano; il dolore di Julie madre (si è sempre madri anche dopo la morte dei figli) nel dover uccidere una topolina ed i suoi piccoli; la figura del pifferaio, che suona un brano simile all’inno per l’unificazione, ma che lui dice di aver creato da solo; il ragazzo che di notte scappa e cerca aiuto, senza trovarlo a causa delle nostre paure e della nostra impotenza ed indifferenza. A scene come queste, a domande che nascono, non si ha risposta né spiegazione, non se ne devono avere, sembra dirci il Regista: è come per il dolore altrui, difronte al quale l’atteggiamento migliore è fatto di silenzio, di empatia e di piccoli, significativi gesti.
Stupenda ed interessante la figura della prostituta: a lei, considerata emarginata ed abietta, desiderosa di aiuto economico e di conforto (amarissima la scena di lei che piange perché non vuole esibirsi nuda difronte al padre frequentatore annoiato di un locale per adulti) il Regista, tagliente ed acuto, offre il ruolo di aiutare Julie.
Troneggia la toccante, superba e, per molti versi, inarrivabile interpretazione di Juliette Binoche, che sa far parlare gli occhi, il viso, così come Kieslowski sa far parlare le cose ed i fatti.
Forse questa è tra le invenzioni più geniali del film: brandelli dell’inno risuonano spesso durante la visione, per poi culminare alla fine nella sinfonia completa, accompagnata dall’Inno all’Amore di S. Paolo ai Corinzi. “Ora perdurano Fede, Speranza e Amore… ma dei tre il più grande è l’Amore”: queste sono le parole che dovrebbero dire fine al film, rappresentando (anche se solo laicamente) il ritorno alla luce di una donna colpita nei suoi più intimi affetti. Ma Kieslowski, ancora una volta, mescola le carte, non attraverso nuovi eventi, ma andando ancora a toccare delicatamente ed atrocemente le sottili corde dell’animo umano…
Si può tornare alla vita veramente? Si può essere forse più liberi senza legami o forse la nostra libertà non può che essere legata (altro paradosso) ai ricordi, anche i più dolorosi? La libertà è un fantasma essendo ogni sentimento finito, limitato e vincolato dalla nostra caducità, legato sempre a qualcosa o a qualcuno? Il volto finale di Julie, assorta, piangente, non vincitrice ma (forse) neanche vinta da un dolore che continua a lacerarla, sembra contraddire le splendide parole dell’inno, quasi a smascherare la disillusione del Regista stesso; ma lo spettatore non ha neanche il tempo di riflettere, di chiederselo, travolto e trascinato alla deriva da immagini e sentimenti contrastanti, dalla speranza ad un senso di dolce tristezza, dalla fede nella rinascita ad un senso di incombente ed irrimediabile sfinimento.
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