Paz! a pezzi
Se vai a vedere un film con l’intenzione di recensirlo, ci devi andare col cervello tirato a lustro, il blocco degli appunti e gli occhi pronti a notare ogni piano sequenza e ogni piccolo difetto del suono, della pellicola o chichessia. Io “Paz!” l’ho visto un mese fa. Avevo perso “Mullholand Drive” ed ero finito lì quasi per caso e per giunta in una sala che mi porta male e in cui ultimamente ho visto due brutti film (“Amelie” e “Brucio nel vento”). Quindi questa sarà una recensione-collage di immagini cose sensazioni abbastanza forti da essermi restate in testa per trenta giorni.
Primo ricordo: il digitale.
Si vede subito che il film non è girato in pellicola e questo non vuol dire che il film sai sciatto e ti lasci negli occhi il sapore dell’economico e del fattoincasa. Assolutamente. “Paz!” è un altro passo avanti verso quella che è l’evoluzione digitale del cinema. Prima c’è stato Lars con i suoi “Idioti”, una comunità di attori che si autoriprendeva e simulava l’idiozia.
C’è stato quel film svedese, “Jalla Jalla”, in cui il nuovo formato era
usato per rappresentare una commedia dal meccanismo classico ma in cui la grana e i colori della videocamera facevano qualcosa di nuovo in mezzo a quegli attori improvvisati e multietnici.
Poi è arrivato Harmony Korine che con Julien Donkey Boy ha spinto ancora oltre il linguaggio delle videocamere utilizzando effetti casalinghi come shutter velocissimi, foto digitali e strobo destrutturando totalmente testo e immagine.
“Paz!” è un altro capitolo a parte in cui il linguaggio digitale è al
servizio dei personaggi e non di una trama prestabilita; attori che
sembrano fumetti dentro piccole storie e situazioni paradossali gestiti
da gente che sa cosa è il cinema e cosa dovrà essere.
Secondo pezzo di collage: si respira l’amore per Bologna, per gli anni
70, per i fumetti di Pazienza e la voglia di far vivere ancora i suoi
personaggi.
Solo questo basta per un film.
Tre. Scritto da Dio.
Le situazioni e i dialoghi sono freschi e tengono sicuramente più
svegli dell’acqua che mi sono dovuto buttare in faccia nel bagno del
cinema per tenermi in vita quando sono andato a vedere “Amelie”.
Quattro. Si osa.
Riprendi uno che piscia per cinque minuti e guarda soddisfatto verso la
macchina da presa, la gente si diverte e si ricorda la scena? Bravo,
sei un grande.
Insomma, se volete una trama vi dico due cose che mi sono rimaste in
testa: le scritte sui muri che ti depistano dai dialoghi, Iaia forte
professoressa in trance di cattiveria, un cucinotto che in un
controcampo si trasforma in un sala-riunioni, un esame di storia del
cinema su “Apocalypse now” e tante altre cose.
A cura di
in sala ::