L’albero che odiava il mondo
Harry sogna. Nel suo mondo visionario è albero, le sue mani rami, le sue dita robuste fronde. Il suo sogno è trasfigurazione e alienazione al tempo stesso: fuga da un reale sofferto e ricerca di una forma statica naturale, nella quale “divenire” e fieramente “essere”.
In una landa povera e piovigginosa d’Irlanda, si svolge il DRAMMA della PAZZIA di un uomo solo che, dopo aver perso un figlio e la moglie, si rifugia nelle morbose attenzioni verso il suo piccolo orto, che impersonifica l’unico legame con un passato relativamente felice che non tornerà più. Nemmeno il figlio rimastogli lo distoglie dalla cognizione di impotenza di fronte al dolore, spingendolo, di contro, a strumentalizzarlo per riscattare un presente in cui non c’è amore per la vita e senso alcuno per continuarla, se non quello di colmare con l’odio la propria di sconfitta. E’ così che Harry dà un senso alla sua esistenza: quello di estrarre dal NULLA in cui si trova, un nemico da combattere. Un avversario che proietti su di sé quella parte di coscienza che Harry stesso detesta e aborre in lui, quell’angolo oscuro della sua mente che tenta di ucciderlo giorno per giorno con armi invisibili.
L’ incarnazione migliore risulta essere un agiato commerciante della piccola comunità irlandese di Skillet (cui appartiene anche Harry); che, “procurandogli” la moglie che suo figlio desiderava, alimenta meccanismi favorevoli all’obiettivo che Harry si è preposto.
Grazie all’intensa espressività di Colm Meaney (Harry); alla fotografia minimalista che riprende un uomo e una natura circostante in perfetto accordo simbolico, lo spettatore riesce ad immergersi nella durezza dei sentimenti di una vita alienata, per poi respirare a tratti, tuffandosi nelle atmosfere sociali di un paesino isolato, dove la gente è chiusa tra pregiudizi e un’imprescindibile fede religiosa.
Quello che il protagonista persegue è una lotta fine a se stessa, un solipsistico credo, lontano da quello dei suoi compaesani, che lo spinge a configurarsi, attraverso continue situazioni paradossali, che lui stesso crea, come misero ANTIEROE che, nonostante ripetute e plateali sconfitte, mira unicamente a titaniche imprese, dove non esistono veri alleati o crudeli nemici, ma soltanto un insopportabile male di vivere.
Tema delicato quello della PAZZIA, quasi inavvicinabile; ma è proprio questo che stimola alla visione del film, dimostrando come le immagini e non solo le parole costituiscano un potente veicolo intellettuale, dove l’espressività corporea emana concetti e non solo sensazioni. Di Harry, più che il tono perentorio dei suoi istintivi slanci verbali, incide il suo sguardo, il suo rude viso segnato da una vita spartana, ingrata e ora lontana, perduta. Del film, invece, più della trama, colpisce l’immagine di una Natura severa nei confronti dell’uomo, ma al tempo stesso materna, trasfigurazione ultima del desiderio di Pace Eterna di Harry, non quella legata ad un credo religioso, ma quella di un solido rifugio dal mondo umano che non parla più lo stesso suo linguaggio, in una dimensione parallela in cui ritrovarsi.
Harry, in ultimo, sembra voler comunicare un messaggio relativamente nitido, benchè carico di profondi turbamenti: forse non c’è nulla che esista realmente al di fuori di noi, è tutto dentro. Il nostro peggiore nemico è invisibile, ma le sue armi feriscono, lacerano, uccidono giorno dopo giorno, la loro potenza è inesorabile. Ma, se diventi albero, tutto questo non può accadere, l’avversario non ha più ragione d’essere, per il fatto che non si ha più la possibilità di crearlo. Anche se la Natura “soffre”, all’interno del suo divenire, al contrario dell’uomo non ha alcuna cognizione del suo “essere nel mondo”.
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