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Desaparecidos: storie di una verità

Basta un piccolo sforzo meta-storico per ricordare le grandi manifestazioni per il Vietnam, altrettanto per quelle per il Cile, dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, ma la memoria comincia a vacillare se si prova a rammentare analoghe sommosse di condanna al golpe argentino del 24 marzo 1976. E anche quando, sul finire degli anni settanta e nei primissimi dell’ottanta, cominciava ad essere noto il dramma dei desaparecidos, non si aveva in realtà mai completamente compreso cosa avessero vissuto e tessero ancora vivendo migliaia e migliaia di giovani in quel paese lontano e poco conosciuto. Credo abbia pesato, in questa diversa valutazione di ciò che stava accadendo, il differente impatto emotivo rappresentato dalle modalità stesse dei due colpi di stato.
Da una parte il Cile: la maschera feroce di Pinochet; Allende che si era tolto la vita pur di non cadere vivo in mano dei militari che avevano assaltato la Moneda; infine quelle immagini provocatoriamente ostentate di migliaia di prigionieri politici rinchiusi negli stadi.
Dall’altra l’Argentina: il suo strano golpe, apparentemente “morbido”, che rovesciava un governo in realtà già di destra, con un presidente fantoccio, Isabelita, semplice strumento del suo ministro Josè Lopez Rega e delle sue famigerate “triple A”(Alleanza Anticomunista Argentina); che già da un paio d’anni avevano avviato quelle feroci pratiche di sequestri e desapariciones poi affinate con il golpe del marzo del ’76 (attivato da una giunta militare composta da Videla, Agosti e Massera).
Sul finire dell’82 erano emerse dal silenzio decennale e consegnate alla Camera centinaia di denunce da parte di famiglie italiane emigrate in Argentina , che riferivano della scomparsa dei loro figli, vittime della repressione del regime militare. “Sparizioni”, quasi sempre senza cadaveri, di giovani tre i venti e venticinque anni, chupados, risucchiati dal gorgo dei sequestri che, ad opera dei militari, si andavano moltiplicando da anni. Delitti chiaramente politici che, offendevano un diritto politico dello Stato e del cittadino.
Ma altre barbarie avvenute durante quel terrificante regime non hanno trovato una voce che le esplicitasse in tutta la loro silenziosa e reale successione: ad esempio poco si è detto circa le “sottrazioni” delle centinaia di neonati venuti al mondo in quei mattatoi, eufemisticamente denominati “centri clandestini di detenzione”, che rappresentarono per altrettante centinaia di giovani madri l’anticamera dei “voli della morte” nel Rio de la Plata o nell’oceano Atlantico.
Oggi sono passati ventisei anni da quel golpe: tempo sufficiente per far emergere quelle vicende dalla semplice e disinformata cronaca e consegnarle a pieno diritto alla Storia. Quello che però rimane come grande e incombente contraddizione di fondo è il fatto che proprio l’Argentina, il Cile e tanti altri paesi che hanno conosciuto al loro interno l’avvicendarsi di veri e propri crimini contro l’umanità, si siano sempre trincerati per negare ogni forma di collaborazione giudiziaria e quindi ostacolare qualunque affermazione di giustizia. Marco Bechis
L’unico strumento che si è dimostrato finora efficace, tenendo in considerazione i suoi limiti intrinseci, per spiare almeno attraverso una fessura un evento politico e umano di così ampia portata e raggio d’azione, è quello cinematografico, grazie al quale è stata data a noi “estranei ai fatti” la possibilità di considerare da vicino e aprire gli occhi su questa tragedia brutalmente sepolta e rimossa dalla coscienza collettiva.

E’ a partire da Marco Bechis (lungo e attraverso due sue significative pellicole) che possiamo comprendere come il cinema possa rappresentare e addirittura colmare quelle lacune storiche che gli stessi mass media hanno accuratamente creato nel corso degli eventi, privandoli di quella realtà troppo scomoda per far parte della diretta ed esplicita informazione, in cui un tema come quello strettamente politico dei desaparecidos era troppo “forte” e pericoloso. D’altronde è difficile non tener presente la vita stessa di Bechis, proprio perché la sua scelta registica e il suo punto di vista storico vanno a coincidere con gli eventi e lo spessore del narrato acquisisce una sorta di sottintesa autoreferenzialità biografica, in cui non è difficile rivivere in maniera quasi autentica un tema così difficilmente rappresentabile. Marco Bechis, infatti, nato a Santiago del Cile nel 1957 (da madre cilena e padre italiano); nel 1977 venne sequestrato e detenuto per quattro mesi dai torturatori argentini in un carcere clandestino. In seguito espulso dall’Argentina per motivi politici, abitò durante gli anni ottanta a Milano. In questi anni l’interesse per i desaparecidos crebbe e sfociò in produzioni video e cortometraggi grazie alla collaborazione delle scuole di cinema milanesi (Albedo). Dopo l’uscita del suo primo lungometraggio (nel 1991) “Alambrado”, nel 1992 andò in Argentina per realizzare numerose interviste a ex prigionieri politici che costituirono poi la base per il suo secondo e apprezzatissimo film: “Garage olimpo” (1999, presentato al 52^ Festival di Cannes, Festival di Salonicco, Festival del cinema ibero-americano di Huelva, Festival nuovo cinema latinoamericano di La Habana). E’ però con “Hijos” (2001); il suo terzo film, presentato alla 58^ Festival di Venezia, che si può delineare un quadro più completo di questo artista.
Il filo conduttore che lega i suoi film più importanti diventa evidente dal momento in cui ci si interessa più da vicino alla sua linea di pensiero. Se si parte dal presupposto che i film sono finzione anche se narrano fatti veri, si può dedurre, seguendo Bechis, che, qualsiasi evento nel film, anche se rappresentato realisticamente, è sempre il risultato di una serie di scelte, cioè è una visione totalmente soggettiva della realtà. Se si pensa poi che la realtà stessa non esiste nella trasposizione mediatica, allora ciò che risulta interessante per il regista è la verità nascosta dietro ogni storia e questa è raggiungibile solo attraverso i personaggi, la recitazione… che comunque costituiscono un atto artistico non mimetico della realtà. Da questo punto di vista la massima finzione può risultare più realistica della semplice riproduzione meccanica della realtà.
Costa-GravasIn “Garage olimpo” non traspariva l’interesse per la psicologia dei torturatori, per i loro dubbi o le loro contraddizioni. Non era quello l’argomento del film, che invece puntava tutto sulla dimensione umana e psicologica delle vittime. Anche in “Hijos” si può notare quanto poco sia rilevante l’indagine psicologica dei “genitori”, gli assassini, e d’altra parte quanto conti l’individualità dei “figli”, le vittime. In questi due film la tristissima “novità moderna” dei desaparecidos sembra voler rispecchiare una ricerca dell’umanità tesa alla scoperta dell’identità, in primo luogo come fatto politico non psicanalitico. La mostruosità che Bechis vuol fare emergere sopra tutti gli altri elementi è il pensiero che un ragazzo apropriado viva la sua vita senza sapere chi è, perché dietro alla vicenda individuale c’è una storia collettiva.
Bechis però sembra voler comunicare che “Garage oliimpo” e “Hijos” abbiano un linguaggio completamente diverso tra loro benché il secondo prosegua in qualche modo la storia del primo. Quello che li unisce indissolubilmente è, di contro, la concezione per cui tra arte, militanza politica e il rapporto con il pubblico esista un profondo legame da cui infine emerge non la quantità degli spettatori, ma la qualità dello scambio con essi.

Altri esempi cinematografici, forse più lontani per appartenenza di quelli di Bechis, ma comunque efficaci nella loro partecipazione al dramma umano degli stati di regime latinoamericani, fanno emergere, sotto altri aspetti e attraverso una diversa interpretazione degli eventi, l’interesse sociologico e storico.
E’ il caso del film “Missing” del 1982 premiato con l’Oscar per la miglior sceneggiatura di Costa Gravas e Donald Stwart. L’ispirazione giunse a Costa Gravas dal sommovimento negli Usa in seguito all’assassinio del giornalista americano desaparecido Charles Horman, per cui si chiedeva al Cile di far chiarezza sull’accaduto. Horman, uomo di sinistra, fu arrestato subito dopo il colpo di stato. In “Missing” i tentativi del padre di trovare il figlio vengono frustrati dalle autorità statunitensi, che cercano di nascondere la verità. [img4]
Questa di Costa Gravas è un’altra finestra sugli stessi fatti che offre la visione da un’angolatura diversa, mettendo in evidenza il ruolo dell’America. La sua scelta registica segue le vicende di uno straordinario dramma umano e politico, strutturandolo come un vibrante thriller cospirativo, dove il classico tema della sparizione della vittima è sviluppato ed esaltato attraverso la scioccante disillusione degli investigatori, confermando il cinema impegno civile.

Non ultimo, la singolare prova di un altro grande regista, totalmente estraneo alla vicende latinoamericane: Roman Polanski. Il suo film in questione è “La morte e la fanciulla” la cui originalità sta nel modo in cui ha affrontato un tema così discusso. Se inizialmente la scelta di Polanski suscita delle perplessità circa le motivazioni che lo hanno spinto a parlare di un evento politico geograficamente così distante da lui, ci si ricorda poi che la vita stessa del regista è stata segnata da un dramma storico che si avvicina a quello del Sud America. Emigrante polacco negli Stati Uniti, sfuggito a un oppressivo regime di stato, rivive attraverso la vicenda idealizzata, teatrale, di tre personaggi le sue ferite ancora sanguinanti, alla ricerca di verità che non appartengono solo al Cile, all’Argentina o all’Europa centrale, ma all’umanità intera con tutte le ingiustizie e l’omertà che insabbiano la Storia e la stessa identità dell’uomo, che può solo ricordare le tragedie vissute, ma non totalmente rivendicarle.

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