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cultura dell'immagine e della parola

Oceano

La grande onda al largo della costa Kanagawa di Hokusai C’è chi si smarrirebbe per sempre.
C’è chi ritroverebbe se stesso nuovamente. Chi lo considera un’enorme vastità marina in cui disperdersi o su cui navigare per anni…
Affascinante, misterioso, ambiguo, stupefacente, legato intrinsecamente a paure umane ancestrali o fantasticherie dell’immaginazione. E perché no, straordinario spunto letterario per poeti e scrittori di ogni sorta, non ultimi, alcuni “affreschi” letterari novecenteschi lo consacrano facendone affiorare una polimorfica visione di esso e al tempo stesso il suo substrato simbolico…
Lungo il complesso percorso letterario del Novecento è difficile selezionare tra le miriadi di proposte ed espressioni notevoli anche solo la “storia” di un termine. C’è però un filo sottile invisibile, che qua e là coglie preziose testimonianze dei vari significanti, attribuiti da variegati autori in differenti contesti alla parola “oceano”, che sembra dilatarsi e ricercare un altrove per esplicarsi…

“Sul brillio turchino del mare che smiracola d’argento…”. Onofri inneggia al luccichio argenteo di un mare paragonato ad un miracolo continuo, dove, anche se la natura è colta solo dai sensi, quindi primitivamente, collabora a rendere perfettibile l’esistenza umana, complice unicamente della sua stessa potente e vivificante forza.Ernest Hemingway
Ma da piacevoli, fuggenti, inebrianti sensazioni, si può passare anche con violenza a passioni umane che brucia scoprire, analizzare… ”Inesauribile fragore di onde / si dà che giunga allora nella stanza / e, alla fermezza inquieta di una linea / azzurra, ogni parete si dilegua…”. Sono parole di Ungaretti che, nel suo “Il dolore”, guarda all’immensità marina come l’uomo nostalgico scava nel suo dolore che non è solo suo ma appartiene a tutti, alla razza umana. Piccolo, l’uomo contempla e si perde nella sensazione lacerante ed infinita che la vita stessa suscita. E si ferma a riflettere.
Non questa è l’interpretazione di un poeta come Montale che, nei suoi ”Ossi di seppia”, indica l’abbattersi tra le braccia del “divino amico” mare come appagamento ritemprante, ma al tempo stesso anche insidioso smarrimento delle difese: ”L’acqua è la forza che ti tempra / nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi…”; un ulteriore elemento interpretativo è poi la riproposta dannunziana della simbiosi tra la figura femminile e la natura marina, al tempo stesso legato all’alterna visione di Montale in cui il mare è il padre-legge, simbolo della trascendenza dell’essere, che condanna il figlio alla deiezione dell’esistanzialità.
Se è poi vero che ogni opera d’arte emana simboli ed allegorie, la parola “oceano” riveste anche all’interno del romanzo un ruolo carico di significati, che gettano la sua concettualizzazione al di là di griglie rappresentative comuni. Choshi nella provincia di Shimosa di Hokusai Ne è uno spettacolare esempio uno dei libri del Novecento più apprezzato per la sua finezza rappresentativa e la sua straordinaria semplicità espressiva, che sottende però un mondo di simboliche e suggestive dichiarazioni poetiche (in cui il termine in questione regna incontrastato): ”Il vecchio e il mare” di Hemingway(1952).
In un teatro del simbolico, nell’amato-odiato oceano, si recita la tragica lotta dell’uomo contro le sue paure. Ma, per Hemingway, oceano è parola ambigua, plastica, proteiforme: ”Perché sono stati creati uccelli delicati e fini come queste rondini di mare se l’oceano può essere tanto crudele?”.
Può assumere un volto malvagio, perché tale è spesso quello della natura, dove l’unica possibilità dell’uomo è quella di lottare, non temere, di nuovo lottare. D’altra parte l’oceano è da lui associato anche a due parole che richiamano fortemente la vita: la donna e l’amore. ”Il vecchio pensava sempre al mare, come a LA MAR, come quando lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani ne parlavano come di EL MAR, al maschile. Ne parlavano come di un rivale o perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvagie era perché non poteva evitarle…”. Applicando un salto letterario e temporale, seguendo sempre però un unico ed invisibile filo, la magia della parola oceano conduce ad un libro in cui i suoi personaggi sono tutti nello stesso luogo: in bilico sull’oceano. [img4] I loro destini si incrociano in questo non-luogo e ne rimangono segnati. La loro storia è surreale, fatata, perché, se tendi bene l’orecchio, è l’oceano stesso a narrarla. Esso possiede una voce, un’anima colma di vita e morte al tempo stesso… proprio come quella umana…
“Se lo guardi non te ne accorgi: di quanto rumore faccia. Ma nel buio… tutto quell’infinito diventa solo fragore, muro di suono, urlo assillante e cieco. Non lo spegni, il mare, quando brucia nella notte.”
In “Oceano mare” di Baricco (1993); proprio qui, la parola viene consacrata degna catalizzatrice non solo di significati, ma di esperienze umane, che la rendono attiva e potente su di noi, almeno su chi non ha perso la straordinaria e naturale dote del fantasticare…
“Il mare. Il mare incanta, uccide, commuove, spaventa, fa anche ridere, alle volte sparisce, ogni tanto si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto: il mare chiama. Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti. Ci sarà sempre, un mare che ti chiamerà”.

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