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La riflessione sommersa

La riflessione sommersa

Steven Spielberg, favolista smaliziato, con questo film entra a gamba tesa sull’animo del pubblico. Parlare al cuore, ai sentimenti è considerato a volte qualcosa di superato, di stucchevole. Eppure, la grandezza di alcuni film è data proprio dal loro saper toccare le corde del nostro sentire; quando questo avviene con delicatezza, quasi con pudore, allora le immagini e il racconto si snodano leggeri e fluidi sotto i nostri occhi, passano nel cervello, ma trovano dimora nei cuori. Il sentimento è valore aggiunto, ma deve essere dosato, controllato, diluito: nel film di Spielberg viene invece gettato a manciate negli occhi dello spettatore, il quale, accecato dalle lacrime, forse si dimentica di fare filtrare le immagini dal cervello. Non è un film sobrio, questo A.I.: anzi è ridondante; non ha un unico respiro, come grandi film anche più lunghi hanno (primo esempio, irrinunciabile: “2001”); inoltre le parti in cui è divisibile sono forse troppo isolate le une dalle altre. La potenza visiva di alcune sequenze, quali la Manhattan del futuro prossimo sommersa dalle acque, o quella del futuro anteriore coperta di ghiacci, non trova a mio avviso nel film il giusto riconoscimento: non in quanto “effetto” o spettacolarità, ma in quanto suggestione, in quanto potenza evocatrice. Il vero effetto speciale della pellicola è il sentimento: l’effetto che tende a stupire, a coinvolgere immediatamente il pubblico. Eppure il messaggio che a noi giunge, per quanto certo non nuovo, è bellissimo: un attimo d’amore vale un’intera esistenza, vale l’eternità. La vita, anche quella di una macchina capace di amare, vale la pena di essere vissuta anche solo per un istante di felicità. Anche la scena dell’abbandono del piccolo David nel bosco è resa con una drammaticità davvero unica, crudelmente reale: lo scatto del bambino quando capisce di venire lasciato nel bosco, la sua disperazione mettono i brividi: e qui la bravura del protagonista certo ha il suo peso. Se il film si fosse limitato a questi pochi, forti momenti emozionali, allora tutto il resto avrebbe potuto essere trattato con più lucidità: certe riflessioni così importanti sul rapporto uomo-macchina, sul futuro del nostro pianeta e di noi stessi, su ciò che ci rende unici e diversi l’uno dall’altro, tutto questo avrebbe potuto essere sviluppato meglio, e meno affidato a noi spettatori; al contrario certe lungaggini emotive, e mi riferisco soprattutto alla sequenza finale, avrebbero potuto essere solo suggerite, lasciando a noi il compito di immaginare come si svolgerà quella giornata che per il protagonista è il culmine del suo eterno esistere.
Il fantasma kubrickiano si fa vedere poco, e soprattutto nella prima parte; già la scena della “fiera della carne”, così rutilante e eccessiva, mi pare lontana, e di molto, dalla sobrietà di Stanley. Una volta preso il comando, Spielberg non si volta indietro e va fino in fondo alla sua maniera, diventa uno Spielberg all’ennesima potenza, usando appieno la propria bravura e il proprio stile. L’intero film è avvolto di grandezza; la severità del mio giudizio nasce proprio dal senso di occasione mancata, o comunque non sfruttata come avrebbe meritato. La bellezza del soggetto, la grandiosità di alcune scene, le potenzialità del regista acuiscono questo senso di delusione: ma tengo presente che se tutti i film che deludono fossero come questo, i film che centrano il bersaglio sarebbero tutti capolavori.
I grandi temi ai quali A.I. si accosta fanno di questo film un’opera che fa riflettere, ragionare: questo è forse il suo più grande merito. La sensazione, tuttavia, è che il regista abbia voluto rendere difficili queste riflessioni, ottenebrando la mente dello spettatore con cascate di melassa.

Note: presentato fuori concorso alla 58^ Mostra del cinema di Venezia (2001). Il progetto originale del film era di Stanley Kubrick che, dopo aver acquistato i diritti della storia, aveva iniziato a scrivere la sceneggiatura, con l’intento di produrre il film, lasciando alla regia Steven Spielberg, ma la sua morte impedì la realizzazione di tale progetto. La moglie di Kubrick, Cristiane e Jan Harlan, hanno deciso di portare a termine il film insieme a Steven Spielberg.

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