Il polacco dagli occhi di ghiaccio
Si vocifera da più parti che Gran Torino rappresenti l’addio di Eastwood dalle scene, per fortuna solo come interprete. Confermata o meno che sia la notizia, non si può non rilevare come il personaggio di Walt Kowalski riassuma in sé molta parte della carriera dell’Eastwood attore. Un giustiziere alla Callaghan, un pistolero come quello della trilogia western del dollaro di Sergio Leone, un duro che opera fuori dalla legge e che non scende mai a compromessi. Si tratta quindi di un ruolo dalla fortissima valenza metacinematografica. Ma non è tutto qui. C’è anche una critica, con una buona dose di autoironia, di quella che è stata un’icona del grande schermo. Eastwood è maturato, è ormai un grande vecchio che è riuscito a raccontare agli americani, in Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo Jima, 2006) il punto di vista dei nemici in guerra. La redenzione compiuta da Walt Kowalski nel film è anche quella di Eastwood attore e regista e la scena finale è l’epitaffio della sua carriera cinematografica. Kowalski/Eastwood è come la Gran Torino, un’automobile d’epoca che lui stesso aveva contribuito a costruire quando era operaio negli stabilimenti Ford di Detroit. Giace ormai ferma in garage, ha fatto il suo tempo. Ma ogni tanto Kowalski/Eastwood la scopre e la lucida, contemplandola con un bicchiere di birra in mano, ricordando i bei tempi che furono.
Gran Torino, con le sue storie sulla difficoltà di integrazione degli immigrati e gli scontri tra gang di etnie diverse, sembra quasi un film dello Spike Lee più arrabbiato, quello di Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing, 1989). Kowalski è rabbiosamente animato dalla diffidenza, dal pregiudizio razzista, nei confronti di chi ritiene diverso, da chi percepisce come un invasore che sta occupando il suo habitat, rappresentato da un tradizionale quartiere operaio del Michigan. È evidente l’implicita ironia della situazione. A sentirsi un autentico americano è un uomo di origini polacche, risultato quindi di una precedente ondata di immigrazione. E il suo odio razzista verso i “gialli”, i nemici di quando combatteva in Corea, si rivolge proprio contro i rappresentati di un’etnia, quella dei Hmong, che era alleata degli americani in Vietnam e che, proprio per questo, fu vittima di persecuzione in patria. La maturazione del personaggio consiste nel riconoscimento e nella progressiva accettazione degli altri. “Ho molte più cose in comune con questa gente di quante ne abbia con i miei figli viziati e fannulloni”, arriverà a dire. Torna il tema del dittico Flags of Our Fathers / Lettere da Iwo Jima (2006), la consapevolezza della dignità di essere umano per quelli che erano nemici di guerra, semplici cose da eliminare negli occhi degli americani.
Ancora una volta un film estremamente complesso, ricchissimo di tematiche pur nell’apparenza di una storia lineare. Da Eastwood un altro, immancabile, capolavoro.
Curiosità
L’etnia Hmong è costituita da 18 clan originari di un territorio compreso tra Laos, Vietnam e Thailandia. Rappresentano una cultura unica per lingua e tradizioni religiose. Per il loro appoggio agli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam, sono stati oggetto di persecuzione e, per questo, si sono rifugiati in massa in America, grazie all’aiuto della chiesa luterana. Il film apre uno squarcio su questo mondo di cui gli americani non sanno nulla, nonostante il ruolo di questa popolazione nel conflitto del sudest asiatico.
A cura di Giampiero Raganelli
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