Bif&st 2011
Diario, appendice
Roma, Corviale. Marco torna a casa dopo essere stato in carcere per spaccio di droga. Sua moglie, che nel frattempo lo ha lasciato, gli porta via anche le foto della loro bambina. Federico, Faustino e Massimo detto “Nigger” sono tre ragazzi che si divertono a fare i bulli con quelli più piccoli di loro. Non vanno a scuola né hanno un lavoro, passano le loro giornate in una pigra e noiosa indolenza. Sonia è una studentessa universitaria che vive sola con sua nonna; per guadagnar qualcosa si rivolge a Sergio, amico di famiglia e proprietario di un bar. Questi sono i personaggi principali di Et in Terra pax, film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, opera che non esito a definire un capolavoro. Per la trama, brutalmente bella come quella di un romanzo di Pasolini; per la splendida fotografia; per una regia che ha saputo esaltare al massimo l’interpretazione degli attori, una regia capace di elevare un pezzo di periferia romana a emblema di tutte le periferie. Proprio di questo inizio a parlare con i due registi, a seguito della conferenza stampa tenutasi a Bari in occasione del Bif&st; una chiacchierata che ha riguardato gli aspetti principali del film e della sua poetica.
Iniziamo proprio dal ruolo svolto dal “serpentone”, questo enorme complesso di appartamenti dove abitano più di 14.000 persone. Come i registi sottolineano, nel pensare la trama del film proprio il complesso abitativo del Corviale ha svolto un ruolo fondamentale, tanto che si potrebbe affermare che esso stesso è il protagonista principale di Et in Terra pax. Un protagonista fisico e metafisico, se così possiamo dire: fisico nella sua materialità, nelle sue dimensioni che dominano lo spazio in cui si muovono i personaggi, per il suo colore grigio che esalta e al tempo stesso annulla tutti gli altri colori. Metafisico per il suo essere quasi un’entità sovrannaturale, che tiene legata a sé la vita brulicante che si agita nelle sue vene, fatte di appartamenti e corridoi, ed impedisce alle stesse di scappare. Chi tenta di fare questo viene severamente punito. In tale ottica si potrebbe vedere lo stupro di Sonia da parte dei tre ragazzi. Sonia, infatti, tra i personaggi miseri e miserabili che affollano questo film è inizialmente quello che si differenzia maggiormente, una brava ragazza che vuol bene a sua nonna e si impegna nello studio (in un contesto dove sembra che nessun ragazzo lo faccia) e nel lavoro (in un ambiente dove i ragazzi della sua età al massimo lavoricchiano). È come che questo enorme golem di cemento percepisca questa sua differenza, e decida di annullarla, sbattendo nuovamente a terra la ragazza, ricordandole che da lì non può andarsene, ricordandole che le sue origini, la sua natura, sono le stesse dei suoi aguzzini. Quando Sonia si rivolge a Federico, chiamandolo “frocio”, vi è nella sua voce un disprezzo, una volgarità pari a quella dei ragazzi che abuseranno di lei. Il momento dello stupro non è solo tra i più forti e drammatici all’interno del film, ma è anche quello dove la fotografia si eleva ad arte. L’inquadratura della violenza è semplice e pregnante come un’opera concettuale: lo sfondo nero dell’asfalto, il taglio obliquo del braccio costretto a terra e, subito dopo, il rosso del vestito della ragazza, rosso sangue, simile ad una ferita aperta, è di enorme impatto visivo.
L’altro argomento della mia chiacchierata con i registi è costituito proprio dai personaggi dei tre ragazzi. Ragazzi di vita li avrebbe definiti Pasolini, che passano le loro giornate a non far niente, ad andare in giro senza un perché, magari limitandosi a fare qualche lavoretto. In questo macrocosmo che è il “serpentone”, con le sue leggi, dettate dai venditori di droga, Federico, Faustino e Massimo sono un microcosmo a parte, il cui equilibrio viene rotto nel momento in cui il “Nigger” scopre che Federico ha rapporti con degli uomini. Come mi fanno notare i registi, lo shock che segue a questa scoperta non è tanto dovuto all’omosessualità del ragazzo, quanto al fatto che la stessa fosse nota a tutti, meno che ai suoi amici. Tale scoperta rompe l’equilibrio nel microcosmo dei tre, equilibrio che viene ricostruito in qualche modo a seguito dello stupro, momento in cui non solo la ragazza dimostra di essere parte di quel sistema al pari dei suoi stupratori ma questi ultimi, a loro volta, si rendon conto di non esser parte del sistema che ordina il Corviale, di essere degli outsider, punibili in quanto tali. E la punizione arriverà per mano degli “amici” di Marco, che hanno il controllo della vendita della droga nel complesso.
Il dialogo con i registi si conclude proprio con il personaggio di Marco, che io ho definito il più autenticamente pasoliniano dell’intera storia. Lo scrittore bolognese è uno dei punti di riferimento più importanti per Coluccini e Botrugno: la periferia romana che vediamo nel film, questa periferia fatta di cemento grondante umidità dove sembra che anche il sole sia grigio, abitata da ragazzi che vivono alla giornata perché il domani è un’entità troppo astratta, è erede dei paesaggi periferici di cui leggiamo in Una vita violenta o in Ragazzi di vita. Malgrado ciò, caratterizzava gli abitanti della periferia descritta da Pasolini una umanità, sicuramente grezza e informe, che contraddistingueva anche i più umili e miserabili, in senso non solo economico ma anche e soprattutto morale. Questa umanità è ciò che differenzia il personaggio di Marco dai suoi presunti amici, ovvero quelli che gli impediscono di cambiar vita una volta tornato a casa dal carcere. Come i tre ragazzi e Sonia, anche Marco è a sua volta un outsider: vorrebbe chiamarsi fuori dalla miseria morale di cui ha fatto parte, ma non ci riesce, e torna a vendere la droga, come se fosse un destino inevitabile. L’omicidio dei tre ragazzi da parte sua, il momento in cui il pathos drammatico del film è al suo acmè, è un vero e proprio urlo contro tale destino e, al tempo stesso, la riaffermazione della sua umanità, proprio nel momento in cui la violenza estrema del gesto l’annulla. Vedendo il personaggio di Marco, non posso fare a meno di pensare ai Malavoglia di Verga: come sulla famiglia siciliana, anche su di lui si abbatte l’inesorabile forza del destino, materialmente simboleggiata dal questa architettura mastodontica e dalle sue leggi, che lo vorrebbero costretto dentro questa umanità senza futuro che la abita. Pur macchiandosi di omicidio, Marco risulta agli occhi dello spettatore dotato di una purezza che tutti gli altri non hanno e che manca soprattutto al personaggio di Sergio. Questo anziano barista, amico di Sonia, si dimostra essere il più meschino di tutti, perché pur sapendo chi è stato a compiere lo stupro, tace per paura che l’arrivo della polizia faccia venir meno l’ordine che vige nel palazzo. Sergio è la materializzazione delle leggi che dominano questo ambiente: la sua umanità è solo apparente e nasconde in realtà un essere senza scrupoli e senza domani. Marco, Sonia e i tre ragazzi, ognuno a modo loro, erano intenti, invece, a pensare al loro domani (per ricominciare, per iniziare, per riprendersi da una violenza troppo grande) ed è per questo che le leggi non scritte di questa architettura mostruosa, di questo mondo periferico svincolato dalla città, li punisce distruggendoli.
Un’opera prima straordinariamente intensa quella di Botrugno e Coluccini. Se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino, i due giovani registi hanno voluto svegliare il loro pubblico con una doccia non fredda, ma di fuoco, fatta di pathos e furor, che parla il dialetto romano e inquadra i quartieri “bassi” per parlare un linguaggio potente, formatosi nel solco tracciato da alcuni dei massimi autori del nostro novecento letterario. E credo sia proprio questo tipo di risveglio ciò di cui il cinema italiano abbia oggi fortemente bisogno.
A cura di Saba Ercole
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