Bif&st 2011
Diario, giorni 1 e 2
Inizia il Bifest, Festival del Cinema di Bari, fiore all’occhiello dell’attività organizzatrice e promotrice svolta dall’Apulia Film Commission. Una seconda edizione che sta ampiamente confermando le conclusioni tratte a termine dell’edizione 2010, che aveva dimostrato come sia fortemente sentita e diffusa la voglia di cinema, soprattutto tra i giovani. Il numero degli abbonamenti venduti in occasione dell’edizione di quest’anno e la notevole, vivace affluenza di pubblico di tutte le età, sin dal primo giorno, sono sicuramente l’auspicio migliore sotto cui è iniziato il festival.
Nella presentazione del programma Felice Laudadio, direttore artistico dell’evento, ha sottolineato come occasioni simili rivelino il grande, l’enorme bisogno di cinema, soprattutto tra i ragazzi, e davvero non c’è termine migliore di questo: sebbene alcuni esponenti della nostra classe dirigente si permettono di affermare che la cultura “non si mangia”, l’evidenza dei fatti dimostra esattamente il contrario, ovvero che essa è per noi necessaria, è un bisogno primario indispensabile per vivere. O meglio, per rendere al vita degna di essere vissuta.
Anche in questa seconda edizione larghissimo spazio è stato dedicato al cinema italiano, che domina completamente le quattro sezioni in gara: lungometraggi, documentari, opere prime e cortometraggi. Dopo tutto, questa è una delle ambizioni del festival barese, ovvero diventare un punto di riferimento importante all’interno del panorama italiano, momento ideale per una riflessione critica che voglia rivedere chi siamo stati e capire chi saremo, nel bene e nel male. Proprio la sezione delle Opere Prime è tra le più interessanti; stessa cosa possiamo affermare della sezione Documentari, tra cui spiccano La svolta – donne contro l’Ilva di Valentina D’Amico e 1960 di Gabriele Salvatores.
Non è stata dimenticata la componente formativa e didattica che questo festival, sin dalla prima edizione, desidera avere e chi scrive può affermare che è una autentica e sincera soddisfazione vedere tanti ragazzi affollare la sala del bellissimo teatro Kursaal per assistere alla lezione di cinema tenuta sabato da Domenico Procacci e domenica da Giuseppe Tornatore. Entrambi sono stati i protagonisti delle prime due serate del festival, che li ha visti insigniti del premio Fellini 8 ½ per il coraggio di dare vita ad uno sguardo diverso sul nostro paese e sulle nostre vite, coraggio di lavorare con giovani talenti a storie complesse e mai banali, coraggio di proporre un’idea di cinema nuova, ma, al tempo stesso, fortemente radicata in una tradizione curiosa e desiderosa di innovare per quanto riguarda l’opera di Domenico Procacci; e per possedere una visione unica di come usare il mezzo cinematografico […] per raccontare storie dense di grandi emozioni, attraverso uno sguardo carico di sensibilità e curiosità per quanto riguarda, invece, l’opera di Giuseppe Tornatore. Ai lettori la piena libertà di dissentire o meno su tali motivazioni.
Il cinema internazionale la fa da padrone durante le serate al teatro Petruzzelli. Aprono le danze il film di Tom Hopper, Il discorso del re, e Secretariat di Randal Wallace. Il primo, in particolare, brilla per l’interpretazione di Colin Firth, in corsa sia per il Golden Globe che per il premio Oscar. Tra i documentari proiettati in questo primo fine settimana, invece, merita che ci si soffermi Dimenticare Tiziano, diretto dal Elisabetta Sgarbi. L’opera è un interessante tentativo di parlare della pittura (in questo caso si tratta degli affreschi del pittore cinquecentesco Girolamo Romanino nella chiesa di Santa Maria della Neve a Pisogne) riducendo al massimo il commento verbale, costituito unicamente da alcuni testi scritti da Vittorio Sgarbi e Giovanni Testori. Le scene della salita al calvario, della crocifissione, della resurrezione sono “narrate” agli spettatori semplicemente utilizzando la luce, le ombre e insistiti movimenti di camera. Questa operazione, se fosse stata accompagnata da un montaggio che ponesse le opere del Romanino in dialogo con quelle del Michelangelo, essendo stata definito il ciclo della Madonna della Neve una sorta di “cappella Sistina dei poveri”, avrebbe esaltato le prime e permesso allo spettatore a cui il Romanino fosse sconosciuto di comprendere pienamente la potenza espressiva, anche se a volte rozza e brutale, della sua pittura, soprattutto se paragonata alle opere dei pittori a lui contemporanei, tra cui vi era appunto Tiziano. La Sgarbi, invece, va avanti e indietro con la macchina da presa e se all’inizio ciò sembra quasi accompagnarsi all’andamento delle architetture della chiesa su cui sono stati dipinti gli affreschi, a lungo andare diventa noioso e ripetitivo, anche perché la regista si sofferma con insistenza su alcuni particolari, tipo il braccio enorme della Maddalena sotto la croce o il pube fasciato del Cristo, tralasciando tutto il resto del ciclo. Ora, è chiaro che tanta insistenza è dovuta a motivazioni simboliche, ma anche il simbolo, se abusato, diventa vuoto e fine a se stesso. Nel complesso un documentario sull’arte che sarebbe stato davvero degno di nota, se la Sgarbi non avesse voluto fare a tutti i costi un’opera solenne nella sua scarnificazione, che riesce però unicamente a tediare.
A cura di Saba Ercole
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