La tentazione del silenzio
Accoglienza in tono minore per un libro dai toni minori. Minimum Fax esce con una pubblicazione che non fa urlare al genio. Niente antologie definitive, niente giovanissimi eccezionali talenti nostrani. Ogni tanto succede anche alle etichette di culto. E a dirla tutta è proprio un peccato che di questo libro si sia parlato poco – perché se ne è parlato poco, anzi, pochissimo.
Meglio: se n’è parlato solo su canali inusuali. Recensioni sono comparse su riviste di moda (Elle) e su riviste di musica (Rolling Stones, Il Mucchio Selvaggio, Rock Star). Agli addetti ai lavori, esclusa qualche eccezione (Stilos, Mangialibri), è passato inosservato. Sarà un caso? Forse no.
Adam è uno scrittore periferico di una letteratura periferica. Uno scrittore essenziale fatto di ritmi più che di parole, di scariche elettriche più che di concetti. Uno di quegli scrittori che piacciono ai lettori e non ai critici. Eppure è giovanissimo e di talento ne ha da vendere.
Passer l’hiver ha qualcosa da dire. Che cosa? La disperazione, il disfacimento, la solitudine. Ma anche tutto un universo di quotidiane gioie e speranze, di amori mai esplosi, di impossibili possibilità di fuga. Ha da raccontare l’umanità, nella sua forma più viva. Storie che pulsano come un mal di testa. Nausee sorrisi e pruriti di esseri umani che sono soltanto esseri umani. Nervi e sangue, come diceva Cechov.
Meglio ancora: Adam non dice. Questi nove racconti sono silenzi interminabili, porte chiuse dietro le quali accade la vita. Sono istantanee a bassa saturazione di un Occidente in crisi, parole non dette, domande alle quali non esiste una risposta. Sono essenzialmente assenza, quello che manca, ciò che resta in questo universo senza centri di gravità, in questo mondo fatto di oggetti, di lavoro precario, di amore precario, di esistenza precaria.
C’è Carver, naturalmente. Carver come scrittore e come esperienza, come punto d’osservazione obliquo, come pietà del vinto per i vinti. Carver come artigiano che fa delle parole un pretesto per dire qualcos’altro, un’impalcatura che nasconde, che svela il sacro dimostrando la sua totale ineffabilità. C’è, in questi nove racconti di Oliver Adam, la convinzione intimamente minimalista che l’immagine sia superiore alla parola. Qualcosa come: questo è il fatto, a te l’interpretazione. Più lasci il vuoto più questo si riempie. Di cosa? Di tutto ciò che le parole non riescono ad esprimere: solo ciò che non vale la pena di essere detto può essere detto. Tutto il resto al lettore.
Insomma: Adam non inventa niente di nuovo. Ma nella mancata originalità esiste la letteratura che parla del presente, con efficacia, con determinazione.
Siamo noi le infermiere, i tassisti, le donne in lutto che popolano questi racconti. Siamo questi quadretti invernali tesi, trasparenti e fragili come il ghiaccio. Siamo queste nove unità di spazio e di tempo. Come le nostre vite: senza un disegno superiore, senza uno scopo.
Passare l’inverno è una colonna sonora di elettronica minimale, un video senza suoni, le storie che leggi sul giornale, le immagini che vedi dal finestrino dell’autobus. Di scrittori così ce ne vogliono. Contro le chiacchiere, contro lo spettacolo a tutti i costi.
Come in una splendida hit dei Depeche Mode: una celebrazione del silenzio, una letteratura che non vuole essere letteratura. In un certo senso è tutto quello che si può chiedere ad uno scrittore.
L’autore
Olivier Adam è nato nel 1974 alla periferia di Parigi. È autore di tre romanzi. Da due di questi, Poids léger e Je vais bien, ne t’en fais pas, in Francia sono stati tratti due film. Nel 2004 ha vinto con Passare l’inverno il prestigioso premio Goncourt per i racconti.
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