Good Morning, Iraq
Il cinema di Paul Greengrass si era finora mosso secondo due tendenze ben distinte. Da un lato le meticolose ricostruzioni di eventi storici dolorosi, retaggio del periodo in cui faceva il documentarista per una televisione britannica, occupandosi di conflitti globali: la domenica di sangue irlandese del 1972, in Bloody Sunday (id., 2002) e il dirottamento dell’aereo sul Pentagono l’11 settembre, in United 93 (id., 2006). L’altro filone è quello di puro intrattenimento con i thriller mozzafiato della serie The Bourne, blockbuster con Matt Damon protagonista.
Con Green Zone, il regista arriva a una sintesi tra queste due correnti, un thriller ambientato in Iraq, con una forte carica di denuncia. Il pretesto delle armi di distruzione di massa, usato come casus belli ma rivelatosi un bluff, e il tragico errore strategico dell’amministrazione americana di fare tabula rasa della classe dirigente baathista di Saddam Hussein, sono gli obiettivi del film-pamphlet. L’esercito e i vari funzionari Usa si muovono arrancando nel pantano iracheno, divisi in fazioni pronte a farsi le scarpe l’una con l’altra, senza capire l’entità del baratro che si sarebbe a breve aperto. E beffardamente il film ripropone la trionfale dichiarazione di Bush, dalla portaerei, di missione compiuta. Non mancano le figure positive, a parte l’”eroe” Matt Damon, quali la giornalista in cerca della verità e l’uomo buono della Cia. Quest’ultimo particolarmente somigliante fisicamente a Michael Moore, che, all’epoca, rappresentava la coscienza critica dell’America. Greengrass si pone come ideale continuatore dell’opera di Costantin Costa-Gavras, quella cioè realizzare opere di impegno civile, divulgandole sotto forma di cinema popolare. Coerentemente con i lavori appartenenti al suo filone civile-giornalistico, Green Zone è il risultato di un accurato lavoro di ricostruzione, per il quale sono stati coinvolti molti protagonisti di quegli eventi, tra reduci di guerra e cronisti. E sempre in comune con quei film c’è un uso ossessivo della macchina a mano, per la quale Greengrass sembra aver fatto tesoro della lezione di Kubrick di Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1963) in cui le scene con la cinepresa imbracciata dall’operatore servivano a dare l’effetto, traballante, da cinegiornale. Immagini quindi che danno un senso da reportage, da cinema-verità. Ma Green Zone funziona anche come elettrizzante e avvincente thriller, incentrato sulla figura del guerriero solitario Matt Damon, ricco di colpi di scena, che, al pari di The Hurt Locker (id., Kathryn Bigelow, 2008), sa sfruttare appieno come sfondo lo scenario da guerra iracheno. E le due dimensioni del film coesistono perfettamente senza che nessuna offuschi l’altra.
Rimane il dubbio sul meccanismo un po’ retorico del tutto, sul presentare come sconvolgente verità dei fatti, che, agli occhi dei più, sono sempre apparsi scontati. Ma forse va tenuto conto dell’ingenuità del pubblico americano cui si rivolge il film.
Curiosità
La Baghdad del film è in realtà Rabat, in Marocco, resa più simile alla capitale irachena con l’ausilio di effetti CGI.
A cura di Giampiero Raganelli
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