Ribellione a colpi di merletto
Fasto, lusso e voluttà. L’eccesso la fa da padrone. Parole d’ordine della città proibita e dello scenario attorno al quale ruota una storia di intrighi e di sangue e persino la ribellione neo-femminista di una sempre affascinante Gong Li che, sebbene non più la fresca e timida sposina di Lanterne rosse (Da hong deng long gao gao gua, 1991), convince ancora come madre e amante appassionata.
È una donna che soffre silenziosamente, accetta le decisioni dell’imperatore suo sposo, ma non senza ribellarsi. Lo fa a modo suo, a colpi di merletto. Come con una neo Penelope, con lei corriamo a passi felpati negli ambienti del palazzo, di notte e lungo i corridoi, tanto kitsch con le sue pareti intarsiate in oro, azzurro, verde e viola. Il colore giallo è ovunque, come nel giardino imperiale, con i suoi crisantemi, simbolo della dinastia e al tempo stesso della ribellione. La macchina da presa si muove velocemente in carrellate aeree tra i fiori e l’esterno del palazzo, svelando spesso un ingegnoso lavoro digitale che non disdegna affatto piani ravvicinati tra le curve delle serve e dell’imperatrice, che tanto ricordano Versailles e tutta la corte del Re Sole. E come con i nobili dell’ancien régime, intorno agli imperatori, Yimou fa gravitare cortigiani, servi, dottori, soldati e cospiratori: una vera e propria catena di montaggio del potere.
Il regista però non vuole realizzare una fedele ricostruzione storica della Cina del X secolo, quanto piuttosto focalizzare su un elemento e sugli gli intrighi che gli gravitano intorno. Il leit motiv è la “medicina” miracolosa, che ogni due ore viene somministrata all’imperatrice. Un liquido scuro, amaro, caldo, che viene preparato con cura in contenitori borbottanti. Un liquido letale che pretende il sangue anche di chi ha indirettamente a che fare con lui.
Altro protagonista è il tema della ribellione, che tanto ricorda l’azione de La foresta dei pugnali volanti (Shi mian mai fu, 2004) nei blitz dei ninja, ma che finisce per assomigliare a un rituale hollywoodiano, perdendo presto di significato e facendo rimpiangere i sentimenti intimisti che avevano caratterizzato i protagonisti di Hero (Ying xiong, 2002). Yimou non sbaglia, ma punta troppo sulla scenografia dimenticando di soffermarsi sulla psicologia dei personaggi, che cogliamo un po’ di corsa, tra un episodio e un altro e in rivelazioni finali che ovviamente risultano sconcertanti.
A cura di Alessandra Cavazzi
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