Berlino experiment
Tra i ruderi di una Berlino postbellica, rifatta, rivista e rivissuta anche grazie all’utilizzo di polvere d’archivio drammaticamente autentica come i cinegiornali di un tempo, l’uomo e il suo occhio si lasciano condurre per strade ombrose alla ricerca della soluzione del fitto mistero che imbriglia il corrispondente di guerra, ora in divisa, Jake Geismer. L’occasione nostalgica e sperimentale si trasforma presto in una splendida ossessione, curiosa ma, al tempo stesso, inafferrabile. Soderbergh, con la complicità di Clooney, realizza un film ambientato nel dopoguerra, viaggia nel tempo e ribalta il concetto stesso di modernità dell’immagine. E’ lui il primo a tornare indietro, compiendo un vero e proprio viaggio a ritroso, con tanto di sposalizio tecnico-stilistico-estetico in grado di emanare le atmosfere del 1945, all’alba della Conferenza di Potsdam che vedrà protagonisti Churchill, Stalin e Truman.
Abituati alla sua grande voglia di sperimentare, ricodificare, ribaltare e stravolgere le abitudini visive e visionarie dello spettatore, entriamo questa volta in un paradiso di nostalgiche rappresantazioni. Un luogo dove riusciamo a toccare il cinema, ricostruito, sognato, immaginato, ritrovato. Citazioni, inquadrature, movimenti di macchina, scelte produttive e realizzative quasi sconvolgenti, ma necessariamente evocative. Casablanca (id., Michael Curtiz, 1942), Notorious (id., Alfred Hitchcock, 1946), Germania anno zero (id., Roberto Rossellini, 1947) e tanti altri, come veri protagonisti si alternano in scena, regalando un’ossessionante occasione di purezza rappresentativa. Poco fruibile, però, per il pubblico duemilasette, perché livido, freddo e lontano. Morbosamente fertile e drasticamente feticcio per chi guarda un film con la stessa passione di un bambino che sfoglia l’album dei calciatori. Il cinema è una questione di gusti, Soderbergh lo sa bene e ammicca ogni volta che propone una nuova scommessa della finzione. Un creatore follemente innamorato del cinema, che riesce ad andare oltre dinamiche puzzolenti e formalmente paludose (come ricorda nella serie Unscripted, o, addirittura, invadendo la distribuzione con l’esperimento Bubble). Lo sa bene anche quando pensa alla saga di Ocean, o quando si diverte a denunciare come in Traffic (id., 2000) o in Erin Brockovich (id., 2000).
Sceneggiatore, regista, produttore, soprattutto pensatore che si ciba di cinema. Un essere dalle strane forme che vive dentro questa grande macchina, forse per cambiarla, forse per continuare a incontrare in modi diversi un nuovo pubblico, forse per rompere le scatole e per portare l’uomo e il suo occhio a condividere un pensiero in comune: l’immagine.
A cura di Matteo Mazza
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