Ambiguo è lo sguardo
Una perfetta Ring Composition per l’ultimo film di Michael Haneke, vincitore di numerosi premi tra i quali quello per la miglior regia all’ultima edizione del Festival di Cannes: la pellicola si apre e si chiude con un’inquadratura fissa, come se il regista avesse posizionato la macchina da presa sul cavalletto e se ne fosse dimenticato. Così come il protagonista (ottimo Auteuil) ha dimenticato porzioni del proprio passato, che “qualcuno” decide di riportare traumaticamente alla luce. Ed è ancora una volta attraverso il Cinema che vediamo, come in uno specchio, paure rimosse e ansie collettive. È l’infanzia del protagonista, ma intrecciata in modo indissolubile con la questione algerina; ed è anche il mondo arabo di oggi, che sembra insinuarsi nell’apparente perfezione della società occidentale borghese, spostandone il baricentro emozionale sull’incertezza e sulla paura.
Inquietanti segnali si affacciano alla porta del protagonista: videocassette e disegni come monito a (ri)guardare se stessi e la propria storia, a mettere in discussione la certezza di non avere niente da nascondere. Nella famiglia (e forse proprio da essa), rifugio sicuro di valori e cultura ormai svuotati del proprio senso, si verificano piccole e via via più grandi deflagrazioni: qualcosa scricchiola, forse i pavimenti dell’appartamento borghese di Georges e Anne, forse la struttura di una relazione, sentimentale e familiare, che non è capace di gestire se stessa, nel momento in cui si sente minacciata. Striscia intorno alla vicenda un sottile senso di colpa, di un individuo e di una società, e la regia di Haneke è impietosa nel mettere in risalto queste tematiche connaturate al racconto. È geniale il primo movimento di macchina che trasforma colui che guarda in colui che è guardato, e affaccia il tema dell’ambiguità della finzione televisiva, rammentata anche in altre occasione nel corso del film (lo spezzone di telegiornale, il lavoro di Georges negli studi di montaggio). Talvolta è con rigorosi piani sequenza che il regista segue lo srotolarsi degli eventi e il crescere della tensione, con uno sguardo lucidissimo e algido, creando una perfetta metafora dello scontro tra due civiltà. Il suicidio di Majid è inaspettato e violentissimo, un attacco duro, un’accusa inappellabile, una sequenza crudele in contrasto con tutto il contesto che è stato mostrato fino a quel punto. E i figli? I figli di entrambe le parti sono lì: guardano e obbligano a guardare.
Cosa privata e cosa pubblica si fondono in questa pellicola, meno gridata delle precedenti ma altrettanto provocatoria, che forse avrebbe bisogno di ciò di cui rimprovera la mancanza al mondo contemporaneo: un supplemento d’anima. Una menzione per Annie Girardot, grandissima.
Curiosità
Maurice Benichou, che nel film interpreta Majid, è attualmente in Italia in tournè con uno spettacolo diretto da Peter Brook, La morte di Khrishna.
A cura di Antiniska Pozzi
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