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Gioia e rivoluzione

Gioia e rivoluzione

Gli anni Settanta sono un periodo a cui il cinema italiano, negli ultimi tempi, ritorna spesso. Un periodo complesso e ricco di cambiamenti, che offre però anche grandi rischi di banalizzazione. Bisogna innanzitutto, a tale proposito, riconoscere il merito a Chiesa di non essere caduto nello stereotipo o nell’idealizzazione dell’età dorata delle radio libere, in un film che ha sicuramente molti più legami con il riuscito Paz!(Renato De Maria, 2003) che non con il più furbo Radiofreccia (Luciano Ligabue, 1998).
Anche l’idea di partenza (raccontare una rapina per poi approdare dalla porta di servizio all’interno della vicenda principale) non è davvero male e consente al film di non rimanere vincolato ad una pericolosa apologia del movimento del ’77. Il concedere poi il fulcro dell’attenzione a due giovani figli del proletariato urbano (Sgualo e Pelo) che, del tutto ignari di Marx o del maodadaismo, vengono a contatto con il mondo dell’estrema sinistra universitaria, consente a Chiesa di applicare una sorta di distacco ironico dagli spesso tronfi ideologismi dell’epoca (vedi la scena della “censura estetica” sul disco dance-commerciale che i due si permettono di mandare in onda) e restituirci quindi una visione sfaccettata e non banale delle realtà del periodo.
E bisogna ammettere, infatti, che la parte più riuscita del film è sicuramente la prima, con la preparazione del colpo in banca attraverso lo scavo del tunnel e il progressivo avvicinamento dei due ragazzi di periferia all’ambiente rivoluzionario di Radio Alice, due fatti che potrebbero essere metaforici vicendevolmente.
A un vivace affresco dello spirito sovversivo e “psichedelico” del movimento, realizzato facendo ricorso ad una macchina da presa a spalla che si aggira tra la redazione della radio e si avvicina ai volti dei ragazzi, si contrappone un mondo freddo e gerarchizzato, che da tutto ciò vuole rimanere estraneo, rappresentato da due tra i personaggi più riusciti di tutto il film: il Tenente dei Carabinieri Lippolis, interpretato da Valerio Mastrandrea (la cui bravura e simpatia stanno seguendo un percorso inversamente proporzionale a quelle di Stefano Accorsi) e Marangon, il delinquente-filosofo che ingaggia i due giovani.
Tra la critica si parla ormai spesso del Procacci’s touch per bollare un filone di pellicole pensate per un pubblico under 30 che hanno come protagonisti personaggi giovani, carini, alternativi ma trendy, ribelli ma in fondo bravi ragazzi (c’era il suo zampino anche in Ora o mai più [Giovanni Veronesi, 2004]), e in effetti anche qui il rischio di scivolare in questo cliché c’è tutto, anche se Chiesa dimostra di essere più intelligente e più onesto di molti altri registi italiani. Non a caso i personaggi a cui ci si affeziona di più (e a cui sembra essere più affezionato Chiesa) sono quelli di Sgualo e Pelo e, come già detto, di Lippolis e Marangon.
Il lungo finale con gli scontri in piazza e l’uccisione di Lorusso (fatto realmente accaduto) risulta però forzato, stilisticamente scollato dal resto di un film che aveva trovato il suo punto di forza in un’originale rielaborazione visiva e linguistica di un periodo controverso e difficile della nostra storia recente. Il ralenti con l’aria Casta Diva tratta dalla Norma sulle immagini delle molotov e delle barricate risulta un po’ “stonato” dopo Patti Smith. Sembra che Chiesa sia caduto nel trappola del voler mettere troppa carne al fuoco, del voler per forza fare un riferimento al presente e al G8 di Genova e l’ultima scena con Max Mazzotta (già un incredibile Fiabeschi in Paz!) carabiniere rinsavito dalla musica delle radio libere sa troppo di commedia all’italiana e di volemose bene.

Curiosità
Gli Afterhours interpretano nel film il gruppo degli Area e appaiono durante un concerto organizzato da Radio Alice in cui eseguono una cover di Gioia e rivoluzione, prossimo singolo del gruppo.

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